La nonna dei 15.123 bambini che erano destinati a morire

Milano, clinica ostetrico-ginecologica Luigi Mangiagalli. L'ufficetto di Paola Bonzi è al terzo piano, quasi in soffitta. La Torre Velasca da una parte, la Madonnina dall'altra. «Ang Center for help sa buhay: kaliwa sa koridor fund» (Centro aiuto vita: a sinistra in fondo al corridoio). Scriverlo in filippino non basta, bisogna tradurlo anche in cinese, arabo, hindi. «Gli aborti si fanno al secondo piano, sotto i miei piedi». La direttrice del Cav ha un udito finissimo, come tutti i ciechi. Se i feti potessero urlare, li sentirebbe. «Non mi ci faccia pensare». A volte però sente urlare le mamme mancate. «È il professor Basilio Tiso, direttore medico di presidio, a dircelo: “Se veniste giù di sotto, vi trovereste in una valle di lacrime”». Qualche gestante scappa via urlando quando è già sotto i ferri. «A quel punto in sala operatoria non sanno più che fare. E allora si dicono: “Mandiamola su dalla Bonzi”. L'ultima volta è capitato ad agosto. Una donna di 33 anni. Io avevo appena finito un colloquio con una quindicenne che non voleva tenere il suo bambino. Era un giovedì. Il lunedì l'adolescente è tornata: “Lo tengo”. È come se si fossero incontrate la vita e la morte».
Ex maestra di bambini oligofrenici, Paola Bonzi fa questo mestiere dal 1984, tutti i giorni: sconfigge propositi di morte e li trasforma in progetti di vita. Lo fa gratis. Come potrebbe essere altrimenti? Mai sentito di nonne che si fanno pagare. E lei è l'unica nonna al mondo che ha già 15.123 nipoti. Merito suo se in questi 28 anni non sono stati abortiti, se sono nati. «No, è merito dei 6 dipendenti del Cav; dei 29 consulenti fra medici, ginecologi, ostetrici, pediatri, psicologi; dei 41 volontari». Fu il primo Centro aiuto vita aperto in Italia all'interno di una clinica dopo l'introduzione della legge 194. E che clinica. La Mangiagalli, «gran “totem” del femminismo milanese», come scriveva all'epoca il Corriere della Sera, s'era procurata una lugubre fama con il processo per gli «aborti facili» e con le statistiche nazionali che la vedevano in testa per il numero d'interruzioni di gravidanza eseguite: in media 5 al giorno. «Non ho mai capito perché ci abbiano fatto entrare. In consiglio d'amministrazione erano dalla nostra solo i due democristiani. Due su 7. Dopo la prima votazione favorevole, il Pci ne pretese una seconda, che ebbe lo stesso esito. Penso ci abbia salvato il presidente Domenico Ceraudo, socialista, il cui voto valeva per due. I primi quattro anni fummo confinati nella sagrestia della cappella».
La Bonzi guida una macchina costosa: 1,5 milioni di euro l'anno. Ne servirebbero almeno 2. E invece è a secco. La beneficenza non basta a coprire i tagli dell'assistenza pubblica. «Il 60% delle donne intenzionate ad abortire sono spinte a farlo da problemi economici. In questo momento ne abbiamo in carico 1.600. Nell'ultimo anno, con la crisi, sono aumentate del 32%. Come consultorio accreditato dall'Asl, riceviamo per un colloquio 19,11 euro di rimborso. Ma io devo assicurare a queste mamme almeno 500 euro al mese per un anno e mezzo. Avrei bisogno di pannolini, magari quelli che la Pampers scarta in fabbrica. E poi di pappe, omogeneizzati, corredini. Mi tocca dire alle madri: “Per il passeggino vedremo. Se ne arriva uno...”. Mi vergogno».
Nei giorni scorsi s'è messa davanti al computer. Dieci tappini gommosi, appiccicati su altrettante lettere della tastiera, le hanno permesso di spedire un'e-mail disperata: «Per i giochi della politica mi ritrovo completamente a mani vuote». Ha lanciato un appello su Twitter: «Tre donne in corridoio in attesa di essere ascoltate per decidere se far nascere o se far morire il loro figlio. Non ho nulla da dare». Chi paga l'affitto dell'alloggio che Carina condivide in zona Bande Nere con altre quattro neomamme assistite dal Cav? Oggi non è più sola. C'è Noah con lei. Gli ha imposto il nome del patriarca biblico perché a San Paolo del Brasile, dov'è nata, abitava nel quartiere ebraico. Ma questo Noè è troppo piccolo per costruire un'arca per sé e sua madre: ha appena 45 giorni.
Che Paola Bonzi, 69 anni, da 47 sposata con un commercialista, veda nero nel futuro non è una metafora. «Mi ammalai a 23 anni. Un'uveite d'origine sconosciuta. Sfregandomi l'occhio destro, mi accorsi che dal sinistro ero cieca. La mia primogenita, Cristiana, aveva 4 mesi. Nel 1968 nacque Stefano. Per qualche mese brancolai nelle ombre, poi più nulla. Mentre le parlo, è tutto arancione. A tratti diventa giallo, a tratti nero. La notte è bianca, luminosa, e il fastidio aumenta. Ma la categoria della cecità nella mia testa non esiste. Vivo in questa tavolozza di colori come se ci vedessi e quindi vado a sbattere dappertutto. In questi giorni ho solo due gambe fasciate. Mi reputo già fortunata».
Accudire la vita, impegno faticoso.
«Non ho potuto evitarlo. Sono figlia unica, dispiaciuta di esserlo, da sempre. Padre barbiere, madre modista, poverissimi. Un fratello sarebbe stato un lusso. Ho provato sulla mia pelle la fatica delle donne in attesa di un bimbo che il mondo circostante ti sconsiglia di avere. Quando rimasi incinta, i medici furono espliciti: “Meglio non proseguire”. La gravidanza fu tribolatissima, al secondo mese finii in ospedale. Allora non c'erano le ecografie, m'immaginavo un figlio deforme. Dopo il parto, un altro ricovero. Ma ricordo ancora le parole del mio oculista, Alessandro Carones, che poi andò a morire su una mina in Niger, mentre mi parlava del mio Stefano, 4 chili e 450 grammi alla nascita: “Però Paola... Ne valeva la pena”. Ho anche una terza figlia, Laura, che ebbi in affidamento fino ai 4 anni e mezzo. Dalla sera alla mattina il tribunale autorizzò il padre naturale a portarsela via. Fu uno dei più grandi dolori della mia vita. A 18 anni ci cercò, non so come fece a trovarci. Oggi è sposata e ha un bambino. Per dicembre ne aspetta un altro. Mi chiama Mapi, acronimo di mamma Paola».
Quali sono «i giochi della politica» che l'hanno lasciata a mani vuote?
«La Regione Lombardia aveva chiuso il fondo Nasko, che dava alle donne da noi segnalate 250 euro al mese per un anno e mezzo. Poi per fortuna il presidente Roberto Formigoni è riuscito a rifinanziarlo. Altro esempio. Il progetto Cicogna voluto dall'ex sindaco Letizia Moratti per le gestanti in difficoltà. Da quando è subentrato Giuliano Pisapia, il Comune s'inventa di continuo clausole restrittive per l'erogazione dei contributi. L'ultima prevede che il datore di lavoro attesti l'avvenuto licenziamento per maternità. Ma se è vietato per legge! Chi mai rilascerebbe alla donna una simile dichiarazione?».
Quante gestanti si sono rivolte al Cav in questi 28 anni?
«Oltre 17.000. Fino al 2000 riuscivo a parlare con tutte. Adesso mi riservo il colloquio con quelle nel primo trimestre di gravidanza, le più a rischio d'aborto. Lo scorso anno sono state 948. In media 8 su 10, forse 9, decidono di tenere il bambino».
Con quali argomenti le convince?
«Le accolgo ponendo loro la domanda più scontata: ha voglia di raccontarmi che succede? È strano, ma quasi sempre iniziano con la stessa parola: “Niente”. È un “niente” che significa “tutto”. Questo mi fa pensare che la gravidanza non trovi posto nella loro mente. Tocca a me dare carne a quel “niente”. Non parlo mai di religione. La vita non ha aggettivi, non è un fatto confessionale. La vita è vita. Non ce la siamo né scelta né cercata. Il mio compito è far nascere una madre, prima che un bimbo».
Quando inizia la vita?
«Quando dall'unione dei due gameti nasce la morula. Non lo dico io. L'ho sentito affermare dai medici abortisti nell'aula magna della facoltà di medicina. Se non la tocchi, la morula diventa una persona. Significa che è già uomo chi un giorno sarà uomo».
Alle donne che vogliono abortire perché al nascituro è stata diagnosticata una grave malformazione che aiuto può offrire?
«Nessuno. Ma un conto è sopprimere un figlio che ti porti in grembo, un altro conto lasciar fare alla natura. Una donna sta malissimo dopo un aborto spontaneo, figuriamoci quando è volontario. Clara aveva 35 anni. Venne da me al quarto mese di gravidanza. Aveva già tre figli. Il marito era morto in un incidente. Dal nuovo compagno aveva tanto desiderato il quarto figlio. Il referto dell'amniocentesi era stato terribile: trisomia 18. I medici le avevano subito prospettato l'aborto. M'è toccato dirle la verità: questi piccoli presentano malformazioni congenite in quasi tutti gli organi, a cominciare dal cervello. E non sono nemmeno belli da guardare. Francesco nacque prematuro. Fu battezzato. Cresceva bene col latte della mamma, il suo aspetto migliorava settimana dopo settimana. Per il suo primo compleanno le operatrici del Cav gli regalarono due body azzurri. Franceschino morì quello stesso giorno. Ecco perché quando una donna mi chiede che cosa farei al posto suo, le rispondo: non lo so, però noi ci siamo, ci saremo sempre, e qualunque cosa succeda affronteremo questa fatica insieme».
Le interruzioni di gravidanza si sono dimezzate: 109.538 nel 2011, contro le 234.801 del 1982. È la prova che la 194 è una buona legge, sostiene chi al referendum si batté per mantenerla.
«Io non ci credo. Saranno diminuiti gli aborti chirurgici, ma non quelli clandestini. A Milano, in zona stazione Centrale, basta che una donna si sfiori la pancia nei sotterranei del metrò e subito si avvicina qualcuno per offrirle a buon mercato il Cytotec, un farmaco antiulcera che provoca come effetto collaterale forti contrazioni uterine e quindi l'aborto. Si continua a uccidere negli studi dei ginecologi compiacenti o con la pillola del giorno dopo».
Perché la lista Aborto? No, grazie, in cui era stata candidata da Giuliano Ferrara, ha fallito?
«Era una lista etica. Non l'ha capita nessuno. Pensi che Rai 3 m'invitò a una Tribuna elettorale e mi chiese di commentare la privatizzazione di Alitalia. Ringrazio Ferrara: il giorno dopo la sconfitta ci ha girato tutti i contributi, 95.000 euro, che aveva raccolto. A distanza di quattro anni, incontro ancora qualche elettore che mi dice con orgoglio: “Non andavo più alle urne. Ma quella volta ci sono tornato perché sapevo per chi e per che cosa votare”».
Lei fu molto aiutata dal professor Giorgio Pardi, primario della Mangiagalli scomparso nel 2007. Non era un medico obiettore eppure le indirizzava le gestanti dubbiose.
«La Mangiagalli eseguì i primi aborti nel 1976 sulle donne contaminate dalla diossina a Seveso, quando ancora non esisteva la legge. Eppure nessuno di quei feti risultava malformato, me lo confessò il professor Giovanni Battista Candiani. Pardi era il suo successore. Un grand'uomo. Non sono mai stata sua nemica. Si disperava perché le diagnosi prenatali non venivano comunicate nel modo giusto. Prenda l'esadattilia, la presenza di un sesto dito nel piede o nella mano. Nessuno spiega alla gestante che è una banale malformazione correggibile con un intervento ambulatoriale: le consigliano di abortire. “Il mondo non è dei perfetti, possono vivere anche gli imperfetti”, s'arrabbiava Pardi. Da abortista credeva in coscienza di aiutare le donne. È così soggettivo il senso del bene e del male... Una napoletana mi disse: “Tengo già tre figli, stavo di nuovo incinta, ma 'a Maronna m'ha fatto 'a grazia”. Pensava che fosse stata la Madonna a propiziare il suo aborto».
Le capita d'incontrare da adulti i bambini che ha salvato?
«Preferisco evitarlo. Non è bello sapere che tua madre voleva abortirti. Nessuna donna è mai venuta a dirmi: “Perché mi ha spinto ad averlo?”. Anzi, torna qui col figlio e piange per aver solo pensato di sbarazzarsene. Comunque i nostri bimbi sono i più belli del mondo, lo scriva. Siamo alla seconda generazione. Ora arrivano i figli di quelli che abbiamo fatto nascere. Sasha si sta laureando in ingegneria».
Non ha mai potuto vedere uno di questi 15.123 suoi nipoti adottivi.

Come se li immagina?
«Pelati. Le mamme mi raccontano invece che hanno tanti capelli. Per me restano pelati. Sono una vecchia bambina. O una bambina vecchia. Ingenua. Ma va bene così».
(623. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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