Qui l'Europa, là l'euro. I Giochi di Londra celebrano lo sport del vecchio continente, novantadue ori sono la vetta di una montagna che Stati Uniti e Cina, nei loro totali, non riescono a raggiungere, soltanto a sfiorare. È una realtà virtuale, di sogno, di utopia, infine un gioco ma è la sostanza, è il risultato della potenza sportiva dell'Europa divisa in nazioni e unita, falsamente, da una moneta che la sta spaccando, lacerando, disunendo.
La Gran Bretagna tira il plotone continentale, le Olimpiadi costruite in casa hanno stimolato Inghilterra, Scozia, Nord Irlanda e Galles a costruire uno squadrone che ha fatto il record storico, momenti di gloria, ventinove volte primi sul podio, piazzandosi al terzo posto alle spalle dei due giganti, americani e cinesi, a conferma che, in caso di necessità, il Regno è davvero Unito, soltanto nelle Olimpiadi, ed è passato dai diciannove ori di Pechino ai ventinove di questa edizione.
Per la proprietà transitiva le ventisette nazioni europee avrebbero fatto bingo mondiale se si fossero presentate unite, tra le grandi soltanto la Spagna incomincia ad accusare un calo, dalle tredici medaglie d'oro di Barcellona 1992, alle cinque di Pechino, alle tre di Londra, scompare l'Austria rispetto a Pechino, zero assoluto, oro-argento-bronzo, riservando inni e trionfi ai Giochi invernali, tra dubbi e sospetti. Dietro la lavagna Lussemburgo e Malta assenti all'appello sul podio assieme a Belgio, Portogallo, Grecia, Estonia, Cipro, Slovacchia, Bulgaria e Finlandia. Il gruppone vede crescere l'Ungheria, dai tre primi podi di Pechino agli otto, veri, pesanti, brillanti di oggi.
Novantadue ori sono un forziere che migliora la prestazione di quattro anni prima, l'Europa di Pechino aveva ottenuto ottantasei vittorie, Londra ha esaltato i britannici e demolito i fenomeni cinesi, crollati nel medagliere di tredici ori.
Si va di numeri che rappresentano la sostanza dello sport, si va di somme e totali che non trovano conferma nella realtà non sportiva di tutti i giorni.
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