Il padre che perse un occhio pur di riavere la figlia rubata

Un occhio della testa. Un occhio vero, non metaforico, il sinistro, che oggi assomiglia a quello di una cernia bollita e gli impedisce di vedere. Tanto è costata a Bruno Poli la sua ostinazione di padre impegnato in una battaglia durata più di tre lustri per rivedere la figlia Stella, nata nel 1985, che la compagna Susanne gli rubò quando la piccina aveva poco più di 2 anni, portandola con sé in Danimarca. E non solo l'occhio. Anche 37 processi. Anche due appartamenti. Anche l'Audi. Anche l'arredamento in stile Luigi Filippo. Anche 211.000 corone danesi per il mantenimento della figlia sottratta. Anche una montagna di quattrini in viaggi e spese legali. Anche il calzaturificio Superstar di Barletta, che aveva 118 dipendenti, esportava 20.000 paia di scarpe al giorno e fatturava 14 miliardi di lire l'anno, chiuso dalla sera alla mattina perché Poli doveva trasferirsi in Danimarca a combattere una battaglia disperata e solitaria. «I miei fratelli mi davano del matto. “Lascia perdere, perché vuoi rovinarti?”, mi dicevano. Allora chiesi consiglio a mia madre. La risposta, in dialetto romagnolo, fu: “Sta ni vé, at dag un s-ciàf”, se non ci vai, ti do uno schiaffo». Se ne intendeva, di bambini, mamma Maria. Suo padre Pilade ne aveva messi al mondo 21 - lei era la diciassettesima - forse per compensare il fatto d'essere stato l'unico figlio di Marco Ravegnani, garibaldino pluridecorato.
Dopo aver vinto la sua battaglia, Poli, nato a Marina di Ravenna nel 1942, adesso resta impegnato nella guerra quotidiana per sconfiggere la piaga della sottrazione internazionale di minori. Fino a oggi sono 75 i bambini che ha riportato in Italia. In questi giorni sta per restituirne altri quattro ad altrettanti padri o madri che se li erano visti portar via dal coniuge separato o divorziato. Una bimba di 3 anni l'ha recuperata addirittura nell'Isola di Pasqua, in mezzo all'Oceano Pacifico, 3.600 chilometri dal Cile: «È la figlia di una donna di Macerata. Il padre, un capotribù, la tratteneva a Rapa Nui». Altri è andato a scovarli in Siria, Egitto, Tunisia, Libia, Kuwait, Algeria, Brasile, Stati Uniti, Messico, Colombia, Santo Domingo, Russia, Ucraina e un po' in tutti i Paesi d'Europa. Oggi è talmente esperto nel diritto privato internazionale da essere diventato consulente di vari ministri degli Esteri.
Per molto tempo Poli ha potuto contemplare sua figlia soltanto in una foto. Stella, all'epoca tredicenne, gliela spedì di nascosto dalla Danimarca, insieme con una tazza da tè sopra la quale era stampata la scritta «Den bedste far i verden», il miglior padre del mondo. Il genitore conserva l'una e l'altra come reliquie. In questi giorni ha potuto finalmente contraccambiare inviando alla figlia una tazza su cui ha fatto serigrafare la foto della prima ecografia della bimba che Stella, ormai ventottenne, darà alla luce in agosto, rendendolo nonno. «Ora possiamo finalmente frequentarci, senza giudici di mezzo. Almeno una volta l'anno viene ospite qui da me». Il fondatore di Bambinirubati.org s'è ritirato a vivere in una sperduta località dell'Appennino modenese, a una dozzina di chilometri da Zocca, il paese natale di Vasco Rossi, che certo ha avuto una vita meno spericolata della sua. La casa nel bosco sarebbe troppo grande se a riempirla non vi fossero Manuela, la compagna tedesca con cui vive da 22 anni, e Ailiin, la loro figlia nata nel 1995, che dopo il liceo classico vuole iscriversi a giurisprudenza per continuare la missione avviata dal padre. «Io sono stanco di avere a che fare tutti i giorni con la sofferenza».
L'odissea di Poli comincia nel 1983. Sposato con Maria e già padre di un figlio, durante un viaggio di lavoro a Haderslev conosce Susanne, una bellissima danese di 22 anni. La ragazza s'innamora di lui e decide all'istante di seguirlo in Italia. Rimane incinta. Chiede di tornare a partorire Stella nel suo Paese, a Sønderborg, e l'imprenditore, che nel frattempo ha divorziato dalla moglie, la accontenta. La nuova famiglia si stabilisce in Puglia, dove lui ha la sua avviatissima fabbrica di scarpe. Sembrano felici. Ma così non è. «Io ero tormentato dai sensi di colpa per il matrimonio fallito e lei non stava alle regole».
Quali regole?
«Quelle del buon padre di famiglia. Pretendeva di uscire da sola la sera, di avere avventure occasionali con altri uomini. Mentalità nordica... Barletta le andava stretta. Voleva trasferirsi a vivere sul lago di Garda».
Un po' distante.
«In realtà non mi amava più. Nel 1987, tagliando l'erba in giardino, una scheggia mi procura una lesione alla cornea. Mentre sono in ospedale, arriva mio figlio e m'informa che Susanne sta preparando le valigie per tornare in Danimarca. Mi faccio dimettere e corro a casa. La imploro di desistere, ma capisco che fra noi è finita. Chiedo: ma per Stella come facciamo? “È tua figlia, puoi vederla quando vuoi”, risponde. Suggerisco allora di formalizzare l'accordo presso l'ambasciata danese. “Va bene, ti aspetto domani a Roma”. Il giorno dopo vado nella capitale e non trovo nessuno. In auto, punto dritto verso la Danimarca, ma non riesco a rintracciare né Stella né la madre. Dopo dieci giorni d'infezione il mio occhio sinistro è una bistecca. Sono costretto a rientrare in Italia, vengo sottoposto a un trapianto corneale a Ravenna. Rifiuto la degenza per tornare subito in Danimarca. Lassù mi si stacca di nuovo la cornea. Altro trapianto d'urgenza. La vista ormai è persa. Inoltre scopro con sgomento che per la legge danese il padre naturale, anche se ha riconosciuto il figlio nel proprio Paese, non gode della potestà genitoriale. Un geometra, capo dello Statsamt, l'ufficio governativo di Aarhus, mi spiega che potrò rivedere mia figlia a tre condizioni: che liquidi le mie attività in Italia, che mi trasferisca in Danimarca e che abbia una convivenza stabile con una donna del luogo. Mi dà tre mesi di tempo per farlo».
E lei chiude il calzaturificio.
«I dipendenti capiscono. Liquido tutti e ritorno in Danimarca con quello che mi resta: 700 milioni di lire. Prendo casa. Tiro fuori il romagnolo che è in me, giacca bianca, camicia aperta e pataccone d'oro sul petto, per far colpo sulla prima che passa, Lotte, la quale per soldi accetta di fingersi mia convivente. Quando torno dal geometra per dirgli che ho assolto a tutti gli obblighi, quello trema di paura: non pensava di rivedermi».
E a quel punto?
«Ne inventa un'altra: mia figlia ha dimenticato l'italiano, quindi l'incontro non s'ha da fare. Le risparmio i successivi gradi di giudizio e le sconfitte in appello. All'improvviso, non richiesta, viene emessa un'ulteriore sentenza: puoi vedere tua figlia per un'ora, il sabato, in un luogo idoneo da stabilirsi. Busso a tutte le porte. L'unico che me le apre è un pastore luterano, padre Lorentsen, che ci ospita e che alla fine mi rincuora: “Secondo me, Stella sa chi sei”. Nel frattempo erano trascorsi 22 mesi».
Qual è stato il momento più doloroso di questo dramma?
«L'adozione. Nel 1993 lo Statsamt di Aarhus m'informa che Susanne si è sposata con un cittadino danese e che costui ha avviato la procedura per l'adozione di nostra figlia. Non trovo un solo avvocato che riesca a orientarsi nel mare magnum delle convenzioni fra Stati. Mi oppongo con tutte le mie forze. Compro l'Enciclopedia giuridica Treccani e mi metto a studiare diritto privato internazionale. Mi scrivo i ricorsi da solo e da solo mi difendo in tribunale. Minaccio di bruciarmi davanti all'ambasciata danese a Roma. Il presidente della Repubblica invia un'accorata lettera alla regina Margarethe II di Danimarca, ma non serve a nulla. Dichiaro al giudice che sono pronto a rinunciare a ogni procedimento giudiziario se mi concede la possibilità d'iniziare almeno un rapporto epistolare con Stella. Richiesta respinta».
Una persecuzione.
«Siccome ormai ne sapevo più del consigliere giuridico del Quirinale, alla fine ottengo di incontrare Stella una volta al mese, per quattro ore. A ogni incontro Susanne, che s'è separata dal compagno e s'è vista mettere all'asta la casa, pretende da me 5 milioni di lire, che le consegno facendole firmare una ricevuta con tanto di causale. Presento questi documenti al giudice. Non li prende neppure in considerazione: “È un negozio fra di voi, non riguarda la legge”. Al terzo incontro mia figlia mi dice: “Sei il mio papà”. La madre glielo conferma e mi porta a cena. Pretende di rimettersi con me. Rifiuto. “Allora non vedrai mai più tua figlia”. E così è stato. Per dieci anni. Anche se in questo lasso di tempo Susanne, attraverso un conoscente, mi fece sapere che era disposta a concedermi 20 incontri con nostra figlia per 40 milioni di lire. E come potevo accettare? Al rientro in Italia me ne restavano solo 60 dei 700 con cui ero partito».
Il lieto fine in che modo arrivò?
«Attraverso Franco Indraccolo, un pizzaiolo italiano da 20 anni in Danimarca, che mi telefonò per dirmi che Stella era amica di suo figlio Stefano e che aveva espresso il desiderio di rivedermi. Mi fece anche avere per posta la tazza da tè e una foto di mia figlia. Ma Susanne impedì l'incontro. Nel 2000 Indraccolo mi ritelefonò. Partii subito in auto per Silkeborg. Al ristorante Roma fu mia figlia Ailiin, che aveva 5 anni, ad avvicinare Stella e a sussurrarle: “Ciao, io sono tua sorella”. “I know”, lo so, rispose lei, e scoppiò a piangere. Da allora nessuno è più riuscito a dividerci».
Non tutte le storie sono a lieto fine come la sua.
«Lieto fine con note amare: oggi Stella non porta più il mio cognome, non può ereditare, non ha la cittadinanza italiana, non può votare nel nostro Paese, se volesse lavorare qui dovrebbe chiedere il permesso di soggiorno. Secondo le statistiche ufficiali, attualmente i bambini rubati sono circa 300, cioè l'1% dei figli con doppia nazionalità. In realtà i casi ammontano a un migliaio».
L'Interpol si attiva?
«In genere sì. Ho in corso quattro richieste per mandati di cattura internazionali, che nel 90% dei casi riguardano le madri. Quelli contro i padri stia pur certo che vengono emessi subito».
Perché dice così?
«Perché soprattutto nell'Europa del Nord vi è una cultura matriarcale dominante, che tende a non togliere il figlio rubato neppure alla peggiore delle madri. Ricevo molte minacce per la mia attività, nella quale incontro sempre un amico e un nemico: il padre è l'amico, la madre il nemico. Tranne che nei Paesi arabi, dove il nemico è il padre e l'amico la madre».
Costa molto istruire una pratica per riavere un figlio?
«Non meno di 10.000 euro, a voler stare stretti. Il signor Nello, un bergamasco, ne ha sborsati più di 400.000. Il suo avvocato gli ha fatto spendere 50.000 euro solo per assoldare un investigatore privato in Svizzera. Poi s'è scoperto che l'inutile detective era la madre del legale».
Non la sfiora mai il dubbio che il bambino stia bene col genitore che lo ha portato con sé all'estero?
«Qui entriamo in un ginepraio morale. Mia figlia mi bastava vederla. Ma capisco un padre che rivuole il figlio a casa».
Come fa a escludere che ricondurre un bambino in Italia non rappresenti una forma di violenza?
«Non lo escludo».
Da quali Paesi è più difficile riportare a casa un minore?
«Dipende. È più facile riaverlo indietro da un giudice islamico che dall'Ungheria o dalla Polonia. In Germania hai qualche speranza in Baviera, ma non in Sassonia. Dalla Danimarca è impossibile».
Per cui che consiglio preventivo darebbe a chi concepisce un figlio in Italia con una donna straniera?
«Richiedere alla nascita il divieto di espatrio del piccolo in assenza del consenso di entrambi i genitori».
Non è un'ingiustizia che un figlio non possa mai più rivedere il genitore «ladro» al quale magari vuole bene?
«Poiché mi sono reso conto di non essere buono, altrimenti non svolgerei il compito che mi sono assegnato, debbo confessarle che non so come pulirmi la coscienza. Ma quando ho di fronte a me un genitore che piange, che soffre, io lo aiuto. Fine. Non posso farne a meno. Lo vede l'uomo in quella fotografia?». (Indica un ritratto appeso al muro). «Si chiamava Eupremio, aveva 49 anni. È morto di dolore in Polonia, lo scorso agosto. Non vedeva il suo bambino da quattro mesi. Il mercoledì mattina era fissato il processo, che avremmo vinto di sicuro. Il martedì notte è stato stroncato da un infarto.

Conservo nel cellulare le ultime foto che gli scattai davanti all'abitazione della madre di suo figlio, al quale voleva consegnare un regalino di compleanno. Suonò più volte, attese una mezz'ora, ma lei non gli aprì».
(650. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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