Matteo Renzi, trentenne sindaco di Firenze, intende candidarsi alle primarie del Pd che indicheranno il premier designato dalla base e non dal partito. Poiché il giovin rottamatore minaccia di vincerle, il primo pensiero di Pier Luigi Bersani è stato quello di abolirle. Soluzione radicale, non c'è che dire, ma un po' grottesca. Difatti, le primarie erano il fiore all'occhiello dei progressisti. Lo sono state finché i capi erano sicuri di padroneggiarne l'esito. Poi, constatato che la gente vota chi gli pare, hanno cambiato idea. Il fiore all'occhiello è diventato un crisantemo, del quale però è difficile sbarazzarsi senza fare una figuraccia con l'elettorato, già abbastanza nauseato dai partiti. Nell'impossibilità di azzerare la consultazione, quindi, i dirigenti hanno ripiegato sulla caccia allo stregone: la parola d'ordine nel Pd è demolirlo. I maggiorenti della forza politica in testa nei sondaggi dipingono Renzi come un Pierino inadatto a Palazzo Chigi, una macchietta animata da presunzione, pronto per l'Isola dei famosi, altro che Consiglio dei ministri.
Teoricamente, il sindaco non dovrebbe essere un avversario dei compagni, ma un compagno egli stesso, da sostenere dato che ha un largo seguito; in pratica, però, è addirittura un loro nemico, un guastafeste da liquidarsi con un sistema molto in uso nel vecchio Pci: annegare l'intruso nel ridicolo. L'operazione è cominciata da un pezzo, ma ora è entrata nel vivo. Il discorso è semplice e brutale: Renzi vuole rottamare noi della vecchia guardia rossa? E noi lo facciamo a fette. Massimo D'Alema ha impugnato il coltellaccio più affilato: «È inimmaginabile che un simile personaggio possa succedere a Mario Monti, trattare con Angela Merkel, rappresentare l'Italia a livello internazionale, sedere al tavolo con i potenti della Terra, oltretutto in un momento come l'attuale in cui sono indispensabili esperienze economiche e finanziarie di spessore».
Una condanna senza appello, condivisa e sottoscritta dall'intero entourage democratico, nel quale, chiunque apra bocca, pronuncia frasi di disprezzo contro il ragazzo toscano. Perché? I motivi sono tanti, ma uno li riassume tutti: lui è diverso. E la diversità spaventa, respinge, provoca reazioni inconsulte specialmente in chi se ne infischia degli interessi del partito e bada maniacalmente al proprio. Renzi non ha soggezione delle cariatidi, le considera dannose, un freno al rinnovamento e alla modernizzazione, causa di immobilismo politico.
Il giovane politico spuntato in riva all'Arno non proviene dalle organizzazioni giovanili comuniste, non si è abbeverato ai sacri testi del marxismo, è di estrazione borghese (padre imprenditore), non ha un linguaggio politicamente corretto, si esprime in fiorentino salace, si fa capire da tutti, è pieno di entusiasmi contagiosi. Insomma, è l'esatto contrario del grigio funzionario di Botteghe Oscure cresciuto sotto la barba di Marx e poi convertitosi al liberalismo di maniera, a lungo combattuto per ordine superiore. Matteo non è don Matteo, ma almeno finge di essere anticonformista, talvolta lo è davvero, se non altro a parole. Inoltre non è privo di coraggio. Mira a demolire l'edificio ottocentesco della casa madre di Bersani e soci, e già questo ce lo rende simpatico.
Non importa se ieri, sul Foglio di Giuliano Ferrara, Barbara Palombelli, facendo il verso a D'Alema, gli ha scagliato contro alcune pietre aguzze per fargli male. Ha detto di lui: «Il suo percorso politico nazionale è come una gara per partecipare a un reality... tutti gli annunci e le dichiarazioni sembrano tappe di un televoto rivolto a casalinghe annoiate in cerca di carne fresca da applaudire o fischiare davanti al video». L'analisi non è avventata. Ma segnalerei alla garbata Palombelli che la sinistra, specialmente ex comunista, per tradizione (tradita?) pretende i voti dal popolo e non soltanto dagli intellettuali, e che per vincere le elezioni bisogna piacere agli elettori, tra cui le casalinghe annoiate o felici, l'è istess, sono assai numerose. Avere ribrezzo della gente non aiuta a farsi amare da essa e a ottenerne il suffragio.
Cosa si chiede a un politico? Di convincere il maggior numero di persone ad avere fiducia in lui. Se Renzi riesce in questo difficile compito non bisogna osteggiarlo, semmai converrebbe dargli una mano. Invece la signora Palombelli, moglie di Francesco Rutelli, dimostra di preferirgli i D'Alema e i Bersani, uomini di apparato che hanno fatto il loro tempo, accumulato una serie infinita di fallimenti, contribuito a distruggere il Paese, involontariamente forse, ma inesorabilmente.
Barbara arriva a dire: «Più che le primarie, ci vorrebbero un esame di lingue straniere e di economia per partecipare, come minimo. Abbiamo bisogno di idee grandi, uomini e donne capaci di pensare al futuro dell'Italia e non soltanto al proprio immediato collocamento». Giusto? Ma chi sarebbero questi uomini e donne? Bersani e Rosy Bindi? Palombelli dimentica - a proposito di lingue straniere - che il proprio coniuge, persona civile, fu candidato premier della sinistra nel 2001, nonostante non avesse dimestichezza con l'inglese: ricordiamo tutti il suo eloquio stentato e un po' comico. E ciononostante non fu sconfitto per questo. Per perdere e per vincere serve altro.
Non dico che Renzi sia inviato del destino. Ma se non a lui i progressisti a chi si affidano? A Romano Prodi? A Walter Veltroni? Se i compagni non fuggono dal circolo Gramsci e non si rendono conto che il mondo è mutato, resteranno sempre prigionieri delle rovine comuniste, ingabbiati nelle loro nostalgie e nei loro errori.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.