Penati "umiliato" dal Trota vuole il processo ma... non molla la poltrona

Il figlio del Senatùr, nemmeno indagato, si dimette. Invece Penati non lascia la poltrona al Pirellone nonostante le indagini sul "sistema Sesto"

Penati "umiliato" dal Trota  vuole il processo ma... non molla la poltrona

Milano - Prendere uno schiaffo da Renzo Bossi deve far male. Anche se ti chiami Filippo Penati e per parecchi lustri sei stato l’uomo forte della sinistra in Lombardia. Perché in consiglio regionale sarà anche stata una Trota fuor d’acqua, ma il figlio del Senatúr le dimissioni ieri le ha date. E a tutt’oggi non è neppure indagato, mentre Penati nonostante sia braccato dalla procura di Monza che indaga su corruzione e concussione, di lasciare il suo seggio di consigliere con lauto stipendio e benefit non ci pensa proprio.

Ma la questione non è solo personale. «I bilanci di Bersani? Li certificava Penati!», twitta velenoso il presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri. E la battuta fa più male di un documentato e magari illeggibile pamphlet che ricostruisca i rapporti tra Pier Luigi Bersani, il segretario del Pd allora candidato alle primarie e Filippo Penati, allora addetto all’organizzazione della campagna elettorale e poi premiato con i gradi di capo della segreteria. Il tutto mentre, secondo i pm Walter Mapelli e Franca Macchia, proprio Penati era il gran burattinaio di quel «sistema Sesto» che nell’ex Stalingrado d’Italia intrecciava mazzette ai politici compiacenti e appalti agli imprenditori rampanti. Un gran vortice di denaro che qualcuno ora vorrebbe finito solo nelle tasche sue e della sua cricca, ma che i magistrati stanno cercando di scoprire se non sia finito anche (o soprattutto) nelle casse del Pd.

Sempre pronto a scandalizzarsi quando i problemi li hanno gli altri, ma non altrettanto a far pulizia a casa propria. Perché ora è facile far dell’ironia sulla «cresta» fatta da Renzo Bossi sulle note spese della Lega, ma non altrettanto a riconoscere che si tratterebbe di ben poca cosa a confronto delle tangenti milionarie girate a Sesto san Giovanni per un decennio. Fatti confermati nelle denunce dagli imprenditori oggi stanchi di pagare.
Il fatto è che Bossi jr, come già ha fatto papà, ieri ha avuto il coraggio di dare le dimissioni. Come avrebbe potuto anche pensare di restare al suo posto, si stracciano le vesti a sinistra, con quel mare di fango che minaccia di sommergerlo? Sarà anche vero, ma allora perché altrettanta indignazione non è riservata a Penati? Con annesso invito alle dimissioni? Per la verità una voce anche a sinistra si è sentita. Ma una sola.

Terribilmente fuori dal coro. È quella di Stefano Boeri, l’indisciplinato assessore della giunta Pisapia. «Renzo Bossi - ha scritto su Facebook - non indagato, ma sospettato di aver usato i soldi pubblici del finanziamento ai partiti per suo uso personale, si è dimesso. Beh... forse non è il caso di farsi dare lezioni dal “trota”. I suoi colleghi indagati, a partire da Filippo Penati e da Davide Boni, ci riflettano bene; le dimissioni da consigliere non sono un atto dovuto, ma certo sarebbero un gesto nobile e sicuramente apprezzato dagli elettori lombardi. Mi sbaglio?». Una voce rimasta isolata. Ma che ha costretto Penati a dare un segno. «Ricordo che mi sono dimesso dalla carica di vicepresidente del consiglio e ho lasciato tutti gli incarichi nel Partito democratico». Nulla più di un catenaccio per evitare di parlare delle vere dimissioni. Quelle da consigliere che gli portano in tasca oltre 10mila euro al mese di stipendio (ovviamente netti), più benefit e staff personale. Perché va ricordato che le finte dimissioni sono una vera beffa: ora il Gruppo misto con Penati unico consigliere costa 215mila euro tra spese di funzionamento, rappresentanza e pubbliche relazioni.

Solo queste, le spese di rappresentanza di Penati capo e unico componente del gruppo, fanno 26mila euro all’anno. A cui vanno aggiunti i 143mila per i dirigenti e i 46mila per il personale. Il tutto da aggiungere ai 10mila euro di stipendio al mese. Poi ci saranno buonuscita e vitalizio. E poco importa se il sospetto è che Penati sia l’artefice di un sofisticassimo sistema di «ingegneria della mazzetta» con cui secondo le accuse dei pm insieme alla «banda dei sestesi» avrebbe rifornito le sue casse. Ma forse anche quelle del partito. Fa nulla se da presidente della Provincia di Milano comprò a prezzi pazzeschi le azioni dell'autostrada Serravalle dall’imprenditore Marcellino Gavio che poi ricompensò il partito mettendo a disposizione parte della plusvalenza (50 milioni di euro) per la «sinistra» scalata di Unipol a Bnl. «Ad oggi - si difende Penati - la Procura della Repubblica di Monza ha chiesto una nuova proroga delle indagini di altri sei mesi che sono peraltro in corso da quasi due anni.

Non è neppure ancora stata presentata la richiesta di rinvio a giudizio che mi consentirà di stare per la prima volta davanti al giudice dell’udienza preliminare per far valere le mie

ragioni. Ciò che chiedo oggi e ho chiesto più volte è di poter essere sottoposto al più presto a processo».
Per adesso Penati sta in Consiglio regionale. Dove vota regolarmente. Ovviamente allineato ai compagni del Pd.

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