Tra le più ricorrenti critiche che sono state fatte al Parlamento italiano c'è quella che la legge elettorale «non si mangia». Che il tema interessa soltanto i partiti e i palazzi romani. Vero. Ma anche un po' riduttivo, semplicistico, superficiale. Per quanto possano sembrare slegate l'una dall'altra, la legge elettorale necessariamente esplica i propri effetti sull'economia del paese, sul tessuto sociale e, quindi, sulla vita delle persone. In periodi di grandi squilibri e di turbolenza politica, infatti, diventa fondamentale interpretare in chiave non solo economica, ma anche politica i dati congiunturali. Dallo studio quantitativo delle decisioni di voto degli elettori, portato avanti dagli studiosi americani è emerso che ogni singolo elettore formula le proprie aspettative sulla base dei risultati conseguiti dal presidente uscente, come dimostrati dal livello di crescita del Pil. Ne deriva che è più probabile che l'elettore esprima il proprio voto a favore del presidente uscente quando la situazione macroeconomica del paese è positiva. Dalla metà del '900 numerosi economisti si sono cimentati nell'analisi dell'impatto delle variabili macroeconomiche, in particolare la crescita del Pil, sui risultati elettorali. È emerso che le forze politiche al governo vincono le elezioni quando queste si svolgono in periodi di crescita dell'economia da almeno un anno, mentre gli elettori «mandano a casa» i propri governanti se la possibilità di esprimere il voto si presenta loro in periodi in cui il Pil è negativo. Il modello americano: tra i primi, Pearson e Myers, della Cornell University di New York, hanno analizzato i risultati delle elezioni presidenziali americane. Dall'analisi è emerso che quando le elezioni si sono svolte in periodi di crescita inferiore al 3% da almeno un anno, nell'85% dei casi il presidente in carica è stato sconfitto. Mentre quando le elezioni si sono svolte in periodi di crescita economica superiore al 3% da almeno un anno, nell'89% dei casi il presidente in carica è stato rieletto. La teoria è stata successivamente ripresa (e confermata) prima da Kramer e poi da Fair, entrambi della Yale University: gli elettori votano per il presidente in carica se la performance dell'ultimo anno in termini di crescita economica è stata soddisfacente (superiore al 3%).
Questo comportamento dell'elettore è il risultato della valutazione «inconscia» di due elementi: competenza e persistenza del presidente uscente. I buoni risultati economici di un'amministrazione nel periodo di tempo precedente le elezioni (generalmente un anno) sono il risultato di politiche economiche corrette adottate dal presidente in carica (competence). Buoni risultati economici frutto di politiche economiche corrette che ci si aspetta che il presidente in carica continui a portare avanti anche dopo le elezioni (persistence over time). Cosa potrebbe succedere in Italia se la nostra economia tornasse a crescere? Sicuramente, data la situazione economica e sociale in cui versa oggi l'Europa e in cui versa oggi il nostro paese, il discrimine non può essere quello del 3% ipotizzato dai modelli di Pearson e Myers, di Kramer e di Fair. Per il nostro paese, l'anno 2013 si è chiuso con una decrescita del Pil pari a -1,8%. Per il 2014 e il 2015, facendo una media delle stime degli istituti di previsione, è attesa una crescita rispettivamente del +0,7% e del +1,2% nel 2015. La politica europea. L'ipotesi di un lieve allentamento delle politiche economiche restrittive nell'area euro, per esempio scambiando flessibilità sui parametri del rapporto deficit/Pil con riforme, attraverso i cosiddetti contractual agreements; la reflazione da parte della Germania, vale a dire aumento della domanda interna, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita per gli altri paesi, a seguito dell'apertura della procedura di infrazione della Commissione europea nei confronti dello Stato tedesco a causa dell'eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti tedesca (netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni); la politica monetaria espansiva della Banca centrale europea. Il contesto nazionale. Dai dati del Centro Studi Confindustria, emerge che in Italia la spinta più robusta viene dall'export (+4,1% nel 2014 e +4,7% nel 2015) e che dal 2014 tutte le componenti della domanda interna riprenderanno a salire: tanto i consumi delle famiglie (+0,2% nel 2014 e +0,8% nel 2015) quanto gli investimenti delle imprese (+1,6% nel 2014 e +2,2% nel 2015).
Tornando al nostro modello americano: confrontando dati macroeconomici e risultati delle elezioni politiche tenute negli anni della crisi (2008-2013) nei principali paesi europei, la tesi per cui gli elettori votano per i partiti che hanno sostenuto il governo uscente quando la situazione macroeconomica è positiva è confermata.
È successo in Spagna alle elezioni anticipate del 20 novembre 2011 e in Francia, alle elezioni presidenziali del 6 maggio 2012. Unico governo europeo uscente confermato dagli elettori: quello tedesco di Angela Merkel il 22 settembre 2013. Perché la Germania è l'unico dei paesi dell'area euro che ha continuato a crescere anche negli anni della crisi. In Italia, si verifica il paradosso dei paradossi, vale a dire il governo Berlusconi viene mandato a casa grazie ad attacchi speculativi da parte della finanza internazionale sul debito pubblico, pur avendo avuto dati macroeconomici alterni, dipendenti totalmente dalla congiuntura internazionale e non ascrivibili alla politica economica del governo Berlusconi, che viene costretto alle dimissioni da un imbroglio.
Che dire dell'attuale governo? Continua a viaggiare con dati economici pessimi, soprattutto in termini di economia reale, con un giudizio assolutamente negativo di famiglie e imprese rispetto alla sua politica economica. Ne deriva che se si andasse a votare per le elezioni politiche a maggio 2014 insieme alle elezioni europee, il modello interpretativo americano potrebbe trovare totale conferma. Mentre se si andasse a votare per le elezioni politiche nella primavera del 2015, l'applicabilità del modello americano sarebbe più dubbia, in quanto la percezione del previsto cambio di segno davanti al Pil forse non riuscirebbe a prevalere sulla memoria della lunga recessione, tanto con riferimento alla durata di quest'ultima, quanto all'intensità. Il nostro dubbio è, infatti, che 4 trimestri di crescita debole non bastino a compensare 8 trimestri di decrescita forte.
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