Caro direttore,
colgo la palla al balzo dopo aver letto domenica la lettera di Vittorio Sgarbi a Silvio Berlusconi. Non sappiamo ancora come e quando si scioglierà questa angosciosa strettoia politica, ma l'idea di Sgarbi di lanciare per il Quirinale la candidatura di una personalità di livello mondiale come il maestro Riccardo Muti mi sembra eccellente. Vorrei proprio vedere chi potrebbe averci da ridire, sia per il prestigio del nome, sia perché quel nome appartiene a una personalità non schierata e non schierabile.
Ma già che ci sono vorrei spendere qualche parola a favore della cultura liberal barbaramente negletta e calpestata in Italia e anzi (...)
(...) negata, derisa e trattata come uno straccio. La cultura la fanno i giornali e la televisione. L'istruttiva e fondamentale scuola del gruppo «Espresso-Repubblica» per cui ho lavorato per quattordici anni della mia vita di giornalista ha ben insegnato nella pratica quella cosa molto concreta che Gramsci chiamò egemonia culturale. L'egemonia culturale poggia sulla capacità di comunicare (non solo di informare, che è tutt'altra cosa) e di influenzare determinando le fortune o le rovine di tutto ciò che marca i comportamenti di un Paese: le sue arti, certamente e per prime, ma poi il costume, i libri da leggere e quelli da non leggere, i divertimenti, i film, i programmi televisivi, fino all'abbigliamento, le vacanze, il modo di parlare, di insegnare, di riconoscersi parte di un gruppo e di escludere con disprezzo chi ne sta fuori. Nulla è più popolare dell'élite.
Il mio più grande rammarico è che l'Italia liberale, maggioritaria quando si vanno a fare i conti, non abbia voluto imparare e applicare la lezione di una politica culturale, della cultura della politica e della politica della cultura. Sgarbi in questo campo è stato e resta un solista immaginifico e solitario, capace di sfondare i confini e imporsi sia con la sua personalità sia con la sua straordinaria competenza artistica, ma le sue incursioni bastano appena a dimostrare quanto si sarebbe potuto e ancora si potrebbe fare se solo si capisse il valore politico, oltre che civile, della cultura e della sua capacità di generare consenso, comportamenti collettivi, scelte, preferenze. Togliatti lo capì perfettamente e mise in campo strumenti modernissimi ed efficienti, che permisero di formare il nucleo dell'egemonia culturale del Pci, a cominciare dalla Editrice Einaudi. I democristiani si ritirarono con la coda tra le gambe preferendo non contendere ai comunisti il primato nella gestione della cultura. Ma purtroppo l'Italia che aspettava una rivoluzione liberale è stata delusa anche dopo la fine della Dc.
Quando mi è capitato in passato di fare queste considerazioni con Silvio Berlusconi, mi sono sentito rispondere che noi liberali, proprio perché liberali, non vogliamo puntare all'egemonia ma, anzi, al rispetto di ogni libera manifestazione nell'arte così come nell'amministrazione della società. A mio parere questo è stato un errore.
Sgarbi nella sua lettera cita Ferrara, Coletti, Martino, Vertone, Mathieu, Rebuffa, Pera, Urbani e altri che definisce «tutti liberi e dotati di pensiero autonomo, certo non servi». E poco dopo elenca «quelli di pensiero e dotati di autonomia di giudizio» citando Fiamma Nirenstein, Giancarlo Lehner, Ida Magli, Geminello Alvi, Marcello Veneziani e me. Questi «liberi dal pensiero autonomo» sono - siamo - stati scartati o non messi in condizione di progettare e animare una politica culturale che sapesse fare concorrenza a quella che si formò (genialmente) intorno a Repubblica con l'Espresso e poi con la prima Raitre di Angelo Guglielmi e il Tg3 - «Telekabul» - di Sandro Curzi. La potenza di fuoco, la capacità di penetrazione e definizione dei gusti, del bello e del brutto, del buono e del cattivo, di quelle testate fu e resta enorme e ha largamente plasmato e guidato il carattere degli italiani che è, sì, molto simile a quello descritto da Giacomo Leopardi due secoli fa, ma anche geneticamente modificato.
La concorrenza è una cosa liberale? Se lo è, si deve dire allora che è del tutto mancata la concorrenza in grado di contendere il territorio della cultura e della comunicazione (che non è l'informazione) alla macchina da guerra che ha prodotto un'egemonia che non ha certo trovato ostacoli o sfide adeguate in una differente e altrettanto capace macchina culturale. Oggi il panorama è sconfortante e l'Italia liberale, cioè incompatibile con l'eredità comunista comunque evoluta ed edulcorata, anche quando è maggioritaria si ritrova chiusa in una riserva indiana, un recinto per selvaggi ignoranti, condannati a un complesso di inferiorità che - siamo sinceri - è spesso un'inferiorità reale per mancanza di strumenti, di idee, di linguaggi e persino di arroganza. Fa eccezione, minoritaria e solitaria ma eccellente, il Foglio di Giuliano Ferrara il quale ha vissuto la prima parte della sua vita all'interno dell'egemonia da cui è fuggito, ma di cui conosce la grammatica e anche gli effetti speciali.
La situazione culturale dell'Italia rispetto al resto del mondo è oggi molto più deprimente persino di quella economica. La cultura egemone non è più, se mai lo è stata, capace di produrre eccellenza di livello mondiale nella letteratura, nelle arti visive, nel cinema e nel teatro, pur con isolate eccezioni. Fra le eccezioni, si registra ancora un certo primato italiano nella musica, classica e moderna. Abbiamo seppellito da poco con commozione Enzo Iannacci dopo Lucio Dalla. E nella grande musica Riccardo Muti è l'artista più prestigioso e famoso. Io spero ancora che l'Italia liberale possa avere una nuova occasione quando sarà stata risolta la situazione demenziale in cui ci troviamo in politica. E spero che questo incredibile nostro Paese che contiene il settanta per cento delle vestigia culturali dell'umanità (ma che non è una potenza culturale viva e vitale) possa finalmente riconoscersi in uno specchio non deformante. Un uomo come Muti al Quirinale darebbe il segno del cambiamento. Dunque, perché no? Ripartiamo da Muti.
segue a pagina 9
di Paolo Guzzanti
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