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Pompei muore e Bondi non c'entra

La "città di lava" è il simbolo del nostro patrimonio di bellezze: trattato come un parcheggio per disoccupati o un’occasione per regalare appalti

Pompei muore e Bondi non c'entra

Pompei dodicimila, Louvre ventiquattromila. Sono il numero di visitatori al giorno e forse la risposta è tutta qui. Non sai come tutto ciò sia avvenuto, ma una cosa è certa: stiamo facendo marcire l’immortalità. Quel 24 agosto dell’anno 79 il Vesuvio cristallizzò una città ed è stato come ferma­re un attimo, come rubare al tem­po il momento esatto della morte, per poi nasconderlo e lasciarlo se­polto sotto una coltre di cenere e la­pilli per secoli. Non c’è nulla che sia paragonabile alla tragica ma­gia di Pompei e di Ercolano. Nep­pure la Gioconda, con il suo sorri­so enigmatico. Non c’è Parigi.Non ci sono le mummie rapite da Napo­leone in Egitto.

Non c’è Stonehen­ge o le rovine Inca di Machu Pic­chu. Non basta neppure lo spazio bianco lasciato dalle Twin Towers nel cuore della capitale del mon­do. Perfino il Colosseo di fronte a Pompei resta solo un monumen­to, dove il sangue dei gladiatori può essere ricostruito in digitale e i passi dei martiri cristiani puoi evo­carli nella suggestione di certi not­ti d’estate, ma restano un bagliore senza massa e senza materia. Pom­pei no. Pompei sta lì, con i corpi sor­presi nel sonno, con le frasi d’amo­re e di sesso dei clienti sulle pareti dei bordelli, con la fuga impossibi­le degli schiavi e dei padroni, con la vita quotidiana che ti si para da­vanti. Pompei non è una città mor­ta. È un attimo che si ripete all’infi­nito. Eppure sta marcendo. Sta marcendo la villa più visitata, con il suo fascino esoterico e divinato­rio.
Come fa a cadere una trave nella villa dei misteri?Significa che ci so­no i­nfiltrazioni d’acqua di cui nes­suno si cura.

Significa che Napoli e l’Italia non si meritano Pompei. È come avere in squadra Maradona e lasciare che si droghi, che vada al­la deriva, che si consumi dentro. Solo che Pompei è più innocente di Diego. Adesso tutti ricomince­ranno a dire di chi è la colpa. Cer­cheranno il capro espiatorio. Era facilissimo quando c’era Bondi al ministero dei Beni culturali, tanto è vero che improvvisati moralisti dell’estetica ne hanno chiesto su­bito le dimissioni. Solo che i guai di Pompei e di tutto il patrimonio di arte, storia e bellezza di questa co­sa chiamata Italia sono un bel po’ più grandi di Bondi. Pompei è solo il simbolo più evidente. Il biglietto d’ingresso costa 11 euro, uno in meno del Louvre, e fa la metà di vi­sitatori. Questo vale anche per i musei italiani. Gli Uffizi impallidi­scono rispet­to alle masse del Lou­vre o della National Gallery a Lon­dra o del Metropolitan di New York.Non c’è nessun museo italia­no nella top ten dei più visitati. I più competitivi sono i Musei Vati­cani e sono roba del Papa. Il mu­seo di Taipei sta messo meglio dei nostri. La verità è che gli italiani continuano a cianciare di questo meraviglioso museo a cielo aper­to, ma la verità è che non lo sappia­mo raccontare.

Gli americani che vanno a Pompei restano delusi. Le statistiche dicono che nessuno di loro torna. Sognano Spartacus e trovano un deserto di burocrati. È colpa di Bondi? È colpa di Ga­lan? È colpa di Ornaghi? È colpa di chi c’è stato prima? Troppo facile. I ministri sembrano i primi prigio­nieri di un ministero sbagliato. Il ministero dei Beni culturali in un posto come l’Italia, se davvero è così meraviglioso, dovrebbe ave­re lo stesso peso politico di un dica­stero economico. E invece i suoi boiardi si accontentano di dispen­sare privilegi e denari pubblici ai loro clientes. È un ministero che nasce dall’idea che il compito del­lo Stato sia quello di far campare artisti, cantanti, attori, registi, sal­timbanchi di questa o quella cor­rente, di questo o quel partito, ami­ci di­amici che elemosinano milio­ni di euro al mecenate pubblico di turno. Bisogna dire che la cultura di sinistra in questo di solito è più brava. L’intuizione di Togliatti, spacciata per filosofia gramscia­na, ha dato i suoi frutti. Gli intellet­tuali si comprano. Basta finanzia­re le loro illusioni. La destra in que­sto è più rozza.

Non li compra per­ché non sa che farsene. Tutte e due le culture, comunque, non rie­scon­o a immaginare la bellezza co­me una ricchezza della nazione. E se un privato si mette in testa di fa­re il mecenate trova tanti ostacoli burocratici da spazientirsi in fret­ta. Abbiamo venduto il marchio Colosseo ai Della Valle ma adesso gli rompiamo le scatole sul restau­ro. Forse era meglio non vender­gli il marchio e fargli fare il restau­ro. Ma a quanto pare non siamo più bravi mercanti.
A questo punto bisogna sceglie­re cosa fare di Pompei. In teoria la «città di lava» dovrebbe finanzia­re tutta la cultura italiana, di fatto stiamo qui a chiederci dove trova­re i soldi per re­staurarla o per fare altri scavi. Se ci pensate non è normale che lo Stato deb­ba preoc­cupar­si di trovare i sol­di
per Pompei. Il fatto che acca­da è un falli­mento impren­ditoriale.

Per troppi e troppi anni Pompei, e le al­tre meraviglie, sono state trattate come un parcheggio per disoccu­pati o occasioni per regalare ap­palti. Come per altre cose ne pa­ghiamo adesso le conseguenze. Bisognerebbe avere il coraggio di venderla ai cinesi o ai russi. O tra­sformarla in una sorta di Disney­land dell’antichità senza bisogno di effetti speciali. Topi e paperi a Parigi fanno più di 40mila visitato­ri al giorno.

E senza l’aiuto del Ve­suvio.

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