Processo al prete che disse a una madre «Non denunciare chi molesta tua figlia»

Un parroco non è una persona qualunque. E se consiglia ad una vittima di non denunciare un abuso sessuale, il suo non è un consiglio ma un reato, e il prete va processato: perché in questo modo ha fornito al violentatore un robusto, concreto aiuto per non essere chiamato a rispondere del suo delitto.
Da pastore del gregge, potrebbe dirsi, il prete si è fatto complice del predatore. Per questo la Cassazione ha annullato il proscioglimento da parte del giudice preliminare di Savona del parroco di un paese del ponente ligure, Pietra Ligure, incriminato per avere cercato di dissuadere una parrocchiana dal rivolgersi ai carabinieri, dopo avere scoperto che la propria bambina aveva ricevuto le pesanti attenzioni di un collaboratore parrocchiale. Ma la donna, fortunatamente, non ha ascoltato il consiglio del suo parroco. Anzi, dopo avere denunciato il violentatore ha denunciato anche il prete. Che ora, dopo la decisione della Cassazione, finirà a processo per favoreggiamento.
«Devi dire a tua figlia che la denuncia è contro la Chiesa». La frase terribile non venne pronunciata in un confessionale o in un incontro in parrocchia. Ma nulla cambia. Perché l'autorità morale che il parroco riveste è una autorità permamente. E in quel caso non gli lasciava risposta possibile che quella di mandare la donna a denunciare immediatamente l'orco. Invece le disse di tacere.
La vicenda avviene a Pietra, uno dei tanti che d'estate si affollano di villeggianti, e che nel resto del tempo sono microcosmi dove tutti si conoscono. La vittima è una bambina, meno di dieci anni. Quando la madre si rende conto di quanto è accaduto, si rivolge alla persona di cui ha più fiducia, cioè il parroco, don Luigi Fusta. Ed è lui che, si legge nella sentenza, «cercava di dissuaderla dallo sporgere denuncia suggerendole espressamente di non fare nulla». Indagato per favoreggiamento, don Luigi nel luglio dell'anno scorso si era visto prosciogliere dal giudice preliminare di Savona con una motivazione singolare. Poiché la madre della bambina non aveva alcun obbligo giuridico di denunciare il violentatore di sua figlia, il parroco che le aveva consigliato la strada del silenzio non l'aveva istigata a commettere alcun reato. Inoltre, secondo il giudice, non c'era la prova che la mancata denuncia avesse davvero aiutato il violentatore a farla franca: «l'omessa denuncia costituirebbe atto neutro che non elude le investigazioni, anche se non le aiuta e non ne determina l'avvio».
Ora la sentenza della Cassazione (le motivazioni sono state depositate nei giorni scorsi, scritte dal giudice Angelo Capozzi) spazza via quella sentenza assolutoria. «Si esula - scrive la Suprema Corte - dall'ipotesi del mero consiglio (...) l'imputato ha invece abusato della qualità rivestita, violando i doveri connessi al suo ministero pastorale, allorquando ha strumentalizzato il legame spirituale di colei che gli si era rivolta in quel grave frangente». «Ponendo, senz'altro e radicalmente, in conflitto la denuncia con la stessa istituzione religiosa», don Luigi avrebbe «conculcato la libera determinazione della madre così pressa ad omettere la denuncia ed a condizionare nello stesso senso la piccola vittima».
La Cassazione rimprovera al giudice che ha assolto il prete di non avere affatto considerato «la qualità di ministro del culto rivestita dall'imputato con la correlata violazione dei doveri discendenti da detta qualità».

Il parroco, si legge nella sentenza, si servì per convincere la donna «dell'autorità e il prestigio connessi alla qualità di sacerdote» e violando i doveri «anche generici, nascenti da tale qualità». Insomma: alla richiesta di aiuto della madre, il parroco rispose secondo quella «tradizione di omertà» che Carlo Maria Martini denunciava come l'atteggiamento troppo frequente della Chiesa davanti agli abusi.

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