"Una punizione all’Italia pagata dagli italiani del confine orientale"

Pubblichiamo il discorso tenuto oggi da Davide Rossi per le commemorazioni delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata al Quirinale

"Una punizione all’Italia pagata dagli italiani del confine orientale"

"Consummatum est" è il lapidario turbamento che Pietro Nenni annota nel diario personale dopo la firma del Trattato di Pace, avvenuta esattamente il 10 febbraio di 77 anni or sono. Il dibattito che si aprì in Costituente per la ratifica fu caratterizzato da una forte tensione, che mescolava all’acre senso della sconfitta quello dell’umiliazione: l’Italia, infatti, subiva risoluzioni per nulla condivise e che vedevano perdere la sovranità dei territori coloniali, di alcuni piccoli comuni del confine occidentale come Tenda e Briga, ma soprattutto dell’Istria, di Fiume, del carso triestino e goriziano, la piccola provincia di Zara (attribuita all’Italia dal Trattato di Rapallo del 1920), oltre alla creazione del Territorio Libero di Trieste. Ed era proprio la sottrazione di quella porzione territoriale che tanti morti era costata durante il primo conflitto mondiale a lasciare attoniti: moltissimi i telegrammi di comuni cittadini in cui si riaffermava "l’indistruttibile fedeltà alla Madre Patria delle italianissime terre colpite dal verdetto dei Quattro Grandi". Benedetto Croce fece sentire la sua voce, greve e dissonante, giudicando il Trattato "non solo la notificazione di quanto il vincitore chiede e prende, ma un giudizio morale e giuridico sull’Italia e la pronuncia di un castigo da espiare. Se la dignità e l’orgoglio dell’Italia erano state umiliate dalle prepotenze e dalle cupidigie internazionali, non vi era motivo per cui si doveva approvare un testo i cui dettami sarebbero stati comunque messi in esecuzione, a prescindere dalla volontà interna".

Anche vecchi liberali come Ivanoe Bonomi o Francesco Saverio Nitti espressero assoluta contrarietà, insistendo come nulla poteva "succedere di peggio della ratifica stessa. La perdita della Venezia Giulia e di Trieste era una ferita non più rimarginabile; ma Pola, Fiume e Zara davano al mondo "la lezione eroica di un plebiscito in cui il voto [era] espresso col sacrificio supremo" dell’esodo. Pur tuttavia il valore della ratifica trascendeva il senso giuridico, essendo un elemento sostanziale per l’adesione al Piano Marshall, da cui trarre le risorse finanziarie necessarie per far ripartire l’economia ed evitare di scivolare "nella scia sovietica", oltre che essere ritenuta una condizione dirimente per concludere positivamente la procedura di ammissione all’Organizzazione delle Nazioni Unite. Nelle ultime battute Togliati mise addirittura in discussione la posizione di Gorizia; alla fine il Partito Comunista optò per una astensione. Invocando una sorta di stato di necessità, il 31 luglio si procedette alla votazione in seduta plenaria, entrando in vigore il 15 settembre successivo, dopo una certa riluttanza espressa dal Presidente De Nicola.

Eppure, solamente otto mesi prima, il 16 giugno il quotidiano Trieste Sera intitolava a nove colonne Lo Stato giuliano nascerà perché a Parigi si vuole la Pace e non la guerra. Qualche giorno dopo, il 25 giugno, l’ottantaseienne Vittorio Emanuele Orlando, quale Presidente provvisorio, apriva i lavori della Costituente: "ed è, questo saluto, rivolto ad un’Assemblea nella quale il popolo italiano, per la prima volta nella sua storia, si può dire rappresentato nella sua totalità perfetta, senza distinzione né di sesso, né di classi, né di regioni o di genti, se anche, sotto quest’ultimo aspetto, si rinnovelli nel ricordo il dolore disperato di quest’ora, nella tragedia delle genti nostre di Trieste, di Gorizia, di Pola, di Fiume, di Zara, di tutta la Venezia Giulia, le quali però, se non hanno votato, sono tuttavia presenti, poiché nessuna forza materiale e nessun mercimonio immorale potrà impedire che siano sempre presenti dove è presente l’Italia".

I costituenti risposero, "levan[dosi] in piedi, [con] vivissimi prolungati applausi e [al] grido di viva Trieste italiana e di viva Trieste repubblicana". Si riferiva al fatto che dei 573 seggi da assegnare, in realtà ne furono attribuiti soltanto 556, mancando all’appello quelli previsti per la Circoscrizione XII (di Trieste e Venezia Giulia-Zara), creando un’ulteriore ferita morale per quelle terre, che erano state private della possibilità di partecipare fattivamente alla ricostruzione del Paese.
Invero, in quegli otto mesi il contesto internazionale aveva imposto le sue spietate regole e cominciava a calare il silenzio su una storia che non poteva essere ricordata, in quanto prova provata di scelte superiori che stavano calpestando la dignità e la vita delle persone.

L’Italia appariva stretta da una duplice morsa: da una parte l’ostilità che subisce chi è uscito perdente da una guerra. È celebre l’incipit parigino di De Gasperi: "prendendo la parola in questo consesso mondiale, sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione".

Dall’altra un Governo di larghe intese, al cui interno era presente un forte Partito Comunista, la cui ottica internazionalista faceva sostenere linee strategiche sovente antitetiche agli stessi interessi nazionali. Mentre i rappresentanti del governo democristiani intraprendevano missioni nel tentativo di guadagnarsi i favori degli Alleati, le sinistre italiane, appartenenti al medesimo Esecutivo, volavano verso Mosca e Belgrado.

Il prezzo del carattere punitivo comminato all’Italia intera fu pagato proprio dagli italiani del confine orientale, che già avevano patito le violenze delle foibe e delle deportazioni, prima nell’ottobre 1943 e, quindi, nel maggio 1945, non a caso in concomitanza con due momenti fondamentali quali la data dell’Armistizio e quella della Liberazione. E tale condizione non fece altro che aumentare quello iato tra la Storia nazionale e la Storia del confine orientale, per troppi decenni percepita come una vicenda marginale, localistica, non rientrante nel patrimonio culturale italiano.

A ciò seguì l’esilio di circa 300.000 persone, costrette a lasciare le loro terre proprio per rimanere italiani, “optando” – mai parola fu così stonata – per rimanere quello che erano. Italiani definiti “fascisti” semplicemente perché lasciavano luoghi in cui il socialismo reale trasformava in pubblico ciò che prima era privato, dissacrava le Chiese, costringeva a parlare lingue diverse, senza valutare le motivazioni di un esodo totale che riguardava maschi e femmine, giovani e adulti, borghesi e operai, genitori o figli. Senza contare i beni nazionalizzati e utilizzati dallo Stato italiano per pagare il debito di guerra con Belgrado, con la promessa di un indennizzo che ha aperto una ferita mai rimarginata.

Malamente la questione si chiudeva con il Trattato di Osimo del 1975: un accordo firmato in fretta e furia in un piccolo Comune marchigiano, da rappresentanti di un Ministero che non era probabilmente neppure quello competente. Un Trattato non compreso in pieno a livello nazionale e che provocò l’ennesima sofferenza alla Venezia Giulia, con delicate ripercussioni politiche, basti pensare alla costituzione della “Lista per Trieste”. Un capitolo a parte meriterebbero proprio le vicende di Trieste, che quest’anno celebra il settantesimo dalla riunificazione: l’ultimo fasto risorgimentale, che aveva dovuto tragicamente conoscere il sangue dei “Moti del ’53”. Definita nevrotica, Trieste è il centro di scambi e di ricchezze che nel Novecento ha visto succedersi l’Impero Austro-Ungarico, il Regno d’Italia, il nazismo, i 40 giorni titini, l’esperienza dell’amministrazione degli Alleati, infine la Repubblica italiana.

La cappa ideologica che ha ammantato il confine orientale si è potuta disciogliere soltanto grazie alla caduta del Muro di Berlino, permettendo di far emergere ricostruzioni, fatti, personaggi, racconti sconosciuti. Dal dibattito del 1998 al Teatro Verdi tra Fini e Violante, favorito da esponenti triestini come Roberto Mania e Stelio Spadaro, si giunse alla Legge del Ricordo, che quest’anno compie vent’anni. Per “giustizia di transizione” ci si riferisce, in ottica interdisciplinare, a quei meccanismi che regolano i processi di passaggio da un assetto autoritario ad uno democratico, rimarcando come al male prodotto dalla Storia si possa rimediare con risarcimenti di natura non soltanto economica, ma pure morale, sociale, cultuale. Una funzione istituzionale e civica, in quanto per ricordare bisogna necessariamente conoscere. In questi 4 lustri molto si è fatto: il Presidente Ciampi ha attribuito la medaglia d’oro al merito civile a Norma Cossetto, violentata ed infoibata nell’ottobre del 1943, divenuta simbolo di tutti coloro che scomparvero in quei buchi neri; il Presidente Napolitano nel 2007 parlò di "sinistri contorni di una pulizia etnica", il Presidente Mattarella ha invitato a "compiere una scelta tra fare di quelle sofferenze patite da una parte e dall’altra l’unico oggetto dei nostri pensieri, coltivando i sentimenti di rancore, oppure al contrario farne patrimonio comune nel ricordo e nel rispetto, sviluppando collaborazione e condivisione del futuro". Una strada l’ha pure aperta il Parlamento Europeo, adottando nel 2019 una risoluzione sull’importanza della memoria per il futuro dell’Europa, in cui si equiparano il nazismo e lo stalinismo: non è il contenuto
dell’ideologia, quanto la sua funzione oppressiva, di integrazione con il terrore e di occupazione ipertrofica dello spazio pubblico.

Di "complesse vicende" parla la Legge.

La storia d’Istria, Fiume e Dalmazia è storia secolare, di pietre che parlano italiano, di Leoni che ricordano Venezia, di un Adriatico ponte tra Ravenna e Zara, tanto che è Dante stesso a fissare – nel IX canto dell’Inferno – i confini italiani a "Pola, presso del Carnaro, ch’Italia chiude e suoi termini bagna".

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