Quanti sfidanti «leggeri» alle primarie democratil retroscena »

RomaL'idea è quella di superare, almeno nei numeri di candidati, le primarie che incoronarono Veltroni come segretario nazionale del Pd. Allora, correva l'anno 2007, l'ex sindaco di Roma si impose nettamente su quattro rivali (tra i quali l'attuale premier Enrico Letta). Era il primo esperimento di questo genere. E fu giudicato un successo (almeno dagli stessi elettori del Pd).
A sei anni di distanza (e con un'altra votazione popolare nel 2009 dove corsero soltanto in tre) la griglia di partenza potrebbe essere più fitta. Ovviamente sono tutti in attesa che Matteo Renzi sciolga la riserva. E lo stesso sindaco di Firenze sta aspettando di sapere se si definisce il quadro delle regole sul voto delle primarie. Su questo argomento il dibattito ferve. Il sindaco di Bari Michele Emiliano, ad esempio, auspica la candidatura di Renzi e avverte: «Però non tocchiamo lo statuto!». Dove c'è per il momento coincidenza tra leadership e premiership. Molti pensano potrebbe anche diventare materia forte del prossimo congresso che si terrà non oltre l'autunno di quest'anno. «Ma fissare ora la distinzione tra le due figure - avverte il senatore Nicola Latorre - sarebbe un grave errore, non solo perché allude a un sistema politico frammentato, ma indebolisce molto la figura del segretario. Comunque io affiderei qualunque modifica statutaria al congresso». E in questi giorni i giornali stanno ospitando interviste ai padri nobili del partito dove vengono spiegate proprio le posizioni, le più diverse, sul modo di eleggere il segretario e sul fatto di legare la sua elezione alla candidatura a premier. Ultimo in ordine di tempo Franco Marini. Dall'alto della sua lunga esperienza, Marini sosteneva ieri - sulle pagine dell'Unità - la necessità di slegare segreteria e candidatura per Palazzo Chigi perché il Pd deve ricompattarsi come partito di massa e non perdere la sua identità e il suo radicamento. Insomma è la tesi del «partito pesante», ovviamente contrapposta al più moderno «partito leggero» tanto caro al primo cittadino di Firenze.
E le altre candidature che in questi giorni stanno emergendo confermano che il nodo è tutto lì. Da un lato c'è il lucano Gianni Pittella, attuale vicepresidente del Parlamento europeo, e Gianni Cuperlo, da più parti indicato come un erede naturale del mainstream diessino. Dall'altro lato c'è il movimentista Pippo Civati che fin dalla prima riunione della direzione nazionale dopo il voto politico di febbraio ha annunciato la sua intenzione di candidarsi, augurandosi un Pd «aperto alle nuove istanze sociali». In mezzo c'è poi il progetto dell'ex ministro Fabrizio Barca. Quest'ultimo ha portato addirittura in giro per le sezioni di tutto il Paese il suo lungo documento programmatico (preso tra l'altro bonariamente in giro da molti per la scelta di una terminologia fin troppo tecnica, tra cui spiccava l'ormai celebre catoblepismo). L'idea centrale di Barca è questa: «senza una «nuova forma partito» non si governa l'Italia.

Ora bisogna vedere se per rinnovare il partito intenda innanzitutto dirigerlo, in modo da avere più agio poi nella sua ambizione di rivoluzionarlo dall'interno. E soprattutto bisogna vedere se i candidati saranno semplici sparring partner o autentici rivali di Renzi.

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