Si chiama «campionismo», ma non è appena un eccesso di spirito competitivo. O il desiderio di far eccellere e primeggiare i propri figli in qualche disciplina sportiva. È una degenerazione. Una patologia in piena regola che colpisce certi genitori così assetati di successo, da trasformarli in padri-padroni. In inflessibili allevatori (e allenatori) di campioncini. In fabbricatori di robottini programmati per vincere, di ragazzi forgiati e votati al successo. Una sindrome che ha quasi sempre radici nelle frustrazioni giovanili degli adulti, mancati campioni di calcio piuttosto che di tennis. Si tratta di problematiche psicologiche che, se irrisolte, possono trasformarsi in pesanti ipoteche per le vite delle persone che ci stanno vicine. E che, se combinate con una certa filosofia dello sfondare ad ogni costo così diffusa in tanti ambienti, possono risultare nefaste. Le risse che si sfiorano abitualmente in certi campetti di periferia, passando sopra ogni minima forma di lealtà e rispetto dell'avversario, nascono da qui. Se poi questa specie di ossessione si applica a uno sport esasperatamente individuale come il tennis o il nuoto, gli effetti sul (volente o nolente) candidato campione possono essere devastanti. Mica tutti hanno la tempra psicologica di Andre Agassi che resistette alle terrificanti prove cui lo sottoponeva suo padre per farlo diventare il numero uno del tennis mondiale. «Papà dice che se colpisco 2500 palle al giorno, ne colpirò 17.500 alla settimana e quasi un milione in un anno - ha raccontato nel bellissimo Open (Einaudi, 2011) -. Crede nella matematica. I numeri, dice, non mentono. Un bambino che colpisce un milione di palle all'anno sarà imbattibile». Come un robot.
A Treviso, notizia di ieri, un genitore ha patteggiato la pena di due anni (sospesa con la condizionale) per il reato di maltrattamenti in famiglia ai danni del figlio quattordicenne, costretto in vari modi a diventare un campioncino di nuoto. Il nuoto, sia detto per inciso, è la più noiosa e solitaria, la più monastica tra le discipline sportive. Ancor più del tennis che in fondo è un gioco, un duello globale. E persino più del podismo e della maratona, altra disciplina solitaria, ma in cui l'ambiente circostante, mutevole, aiuta la mente. Nel nuoto, la forza deve e può venire solo da dentro. Quel ragazzo di Treviso era dunque costretto ad allenamenti massacranti, a un'«attività agonistica ossessiva» (sintesi del medico sportivo della Usl competente), all'assunzione di integratori e sostanze iperproteiche inadeguate alla sua età (tanto da provocare frequenti vomito, nausea e dissenteria) per aumentarne le masse muscolari, a una vita senza alcuna distrazione, tutta piegata al raggiungimento delle vittorie in piscina. Tuttavia, l'aspetto più aberrante della vicenda è che anche l'affetto del padre verso il ragazzo era commisurato alle sue prestazioni. Se vinceva, carezze e sorrisi. Altrimenti, freddezza e musi lunghi. Un ricatto psicologico che, lentamente, aveva modificato il carattere del ragazzo, trasformandolo in un adolescente ombroso e solitario. L'indagine della Procura di Treviso era partita in seguito alla denuncia della moglie, stanca di assistere alle vessazioni cui suo figlio era sottoposto. Ora il matrimonio è in forte pericolo e i due genitori si stanno separando. E anche la carriera sportiva del ragazzo lo è.
«Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta», scriveva ancora in quel libro Agassi: esemplare unico di affermazione a rischio follia.
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