Il giorno della civetta di Marcello Dell’Utri dura da diciotto anni. E ancora stenta a venir fuori una verità tra mezzi-uomini di mafia e quaquaraqua. Gli hanno cucito addosso l’etichetta di mafioso a tempo determinato. Il contratto di consulenza con Cosa nostra siciliana, per i giudici d’appello che lo hanno condannato a sette anni, è scaduto nel 1992. E il ragioniere capo (Provenzano) non l’ha voluto più rinnovare. Una cosa mai vista prima. Stando alle accuse finite in Cassazione il concorso esterno è terminato due anni prima della nascita di Forza Italia e dodici mesi prima delle stragi del 1993. E non solo. Leggendo le motivazioni d’appello non c’è stato alcun patto politico-mafioso tra il partito azzurro e i tagliagole corleonesi, con buona pace dei professionisti antimafia amanti della trattativa. I giudici di secondo grado sono stati categorici: non ci sono prove «né che l’imputato abbia assunto impegni nei riguardi del sodalizio mafioso» e nemmeno che «tali pretesi impegni (...) siano stati in alcun modo rispettati». Detto in siciliano: la storia dell’accordo tra Forza Italia e Binnu è una minchiata. Com’è una minchiata il fatto che la Piovra gli abbia poggiato un tentacolo sulla spalla sponsorizzandolo alle elezioni. Ancora dalle motivazioni d’appello: «L’imputato alle Europee del 1999 si candidò nel collegio Sicilia-Sardegna e il preteso massiccio appoggio elettorale fornitogli da Cosa nostra fu tale che egli non venne neppure eletto...La tesi accusatoria che (...) vi è stata una massiccia mobilitazione in tutta la Sicilia a favore di Dell’Utri confligge dunque irrimediabilmente con il dato oggettivo e incontrovertibile del fallimentare risultato elettorale». Che figuraccia, don Marcello. E la balla che la mafia abbia «puntato» su Dell’Utri e sulla nuova formazione politica del Cavaliere come sostengono i pentiti? Una leggenda metropolitana, che continua comunque ad aleggiare sull’inchiesta per concorso esterno. «Pur dopo l’impegno sostenuto a favore di Forza Italia nel 1994», scrivono i giudici d’appello, citando il pentito Maurizio Di Gati, «(senza che il collaborante sia a conoscenza di pretese garanzie e impegni dati in cambio del sostegno elettorale) erano diffusi alla fine degli anni ’90 i malumori degli uomini d’onore che, a fronte di sperati e attesi interventi legislativi di favore da parte del governo di «centrodestra», si ritrovavano invece a subire una legislazione sempre più sfavorevole come nel caso delle trasformazioni in legge del regime detentivo del 41bis».
Capitolo pentiti. Sarebbe quello più coinvolgente, se la storia fosse un romanzo noir. Visto però che si tratta di un processo penale vale la pena di sottolineare che l’asso nella manica della Procura, Gaspare Spatuzza, lanciato come una bomba a mano nel processo a dibattimento concluso, ha fatto sì un buco. Nell’acqua, però. Smentito e sbugiardato dal silenzio di non assenso di Giuseppe Graviano, il capomandamento che gli avrebbe rivelato, al bar Doney di via Veneto, di avere Dell’Utri e il Paese nelle mani. Pure il fratello Filippo, ha smentito il pentito sconfessandolo il teleconferenza: «Non ho avuto alcun tipo di rapporto con lui, né direttamente né indirettamente». Fine della storia.
E Ciancimino? L’oracolo antimafia che, come la Sibilla, lancia un vaticino a libera interpretazione, ne ha prese di cantonate. S’è incartato sul biglietto in cui si parlava di tv e Berlusconi (cambiando tre volte versione) ma è sul rapporto tra il senatore siciliano, suo padre Vito e Binnu che dà il peggio di sé: «Dell’Utri subentrò a mio padre nella trattativa, i rapporti tra lui e Provenzano erano molto stretti». No, rettifico: «Mio padre disse che Dell’Utri era l’unico che poteva scavalcarlo nella gestione della trattativa (...) Una volta tentò di agganciare Dell’Utri perché voleva parlargli e tentò tramite me e un certo deputato Catania. Poi non se ne fece più niente, perché Dell’Utri aveva paura di incontrare mio padre». Certo, perché incontrare Provenzano invece è una passeggiata di salute. Un teste inattendibile, «inaffidabile», così liquidato dai magistrati di Caltanissetta (leggere l’articolo sotto).
Per incastrare quel belzebù di siciliano bibliofilo hanno tirato in ballo finanche il diavolo rossonero. Pure di questo Dell’Utri è stato accusato: aver «raccomandato» per un provino al Milan un giovanissimo talento siciliano, Gaetano D’Agostino, e aver procacciato un lavoro al padre per permettergli di mantenersi a Milano. Il padre sarà poi arrestato coi Graviano, in un ristorante nel capoluogo lombardo, due anni dopo il provino. E la tangente sulla pallacanestro? Un’altra storia incredibile: il futuro potentissimo fondatore di Publitalia80 accusato (con relativa richiesta d’arresto, respinta da Palazzo Madama) di aver taglieggiato il presidente della Pallacanestro Trapani per avere metà pagnotta della sponsorizzazione della Birra Messina. Da questa storia, Dell’Utri è stato assolto com’è stato assolto per il caso del pentito Cosimo Cirfeta, una presunta calunnia nei confronti di tre collaboratori.
E gli incontri di Berlusconi e Dell’Utri con i boss Bontade, Teresi e Di Carlo? Mai avvenuti. E Mangano «punciutu» ad Arcore? Bufala. Lo stalliere fu licenziato nel ’74 e con il Cav non ebbe più rapporti. Venne assolto al maxi-processo e, fino a prova contraria (che non c’è) era davvero un esperto di cavalli. Ma la procura di Palermo, secondo voi, ha mai preso nota di queste cantonate? No.
E nemmeno i giudici hanno preso atto visto che l’hanno condannato perché «ha coscientemente mantenuto negli anni amichevoli rapporti con coloro che erano gli aguzzini del suo amico e datore di lavoro»: Silvio Berlusconi, vittima designata di Cosa nostra per il racket alla Standa e per i ripetitori in Sicilia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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