«La fine dell'euro? In Germania ormai non è più un tabù». Thomas Schmid, direttore editoriale della Welt, uno dei più influenti quotidiani del Paese, è tra gli esponenti di punta dell'establishment liberal-conservatore tedesco. Dalla sede del gruppo Springer (che pubblica tra l'altro la popolare Bild), a pochi passi dal muro che un tempo divideva Berlino, segue l'evolversi della crisi europea e l'azione del governo di Angela Merkel.
Per anni la moneta unica è stata uno dei principi indiscutibili della politica tedesca.
«Il problema è che oggi la crisi è arrivata a livelli che sembrano sfuggire alla capacità di comprensione o di controllo. Ed è il frutto di una serie di errori clamorosi».
E cioè?
«Il primo, di cui anche uno statista come Helmut Kohl è corresponsabile, è stato quello di non aver accompagnato l'introduzione della moneta unica con una adeguata architettura istituzionale. Poi ce ne sono altri, come l'aver accettato un Paese che non era pronto come la Grecia. E le colpe naturalmente sono anche della Germania. Non dimentichiamo che è stata lei ha violare per prima il patto di Maastricht, quando nel 2003 superò il livello di deficit stabilito. Ma il peccato fondamentale che oggi paghiamo è quello di aver ampliato a dismisura lo stato sociale a forza di debiti. Nei decenni della ricchezza abbiamo goduto di un benessere assolutamente sconosciuto ai nostri genitori, ma siamo cresciuti indebitandoci. Un delitto nei confronti di chi poi dovrà pagare, le giovani generazioni».
E oggi le élite tedesche credono ancora nell'euro e nel suo futuro?
«Oggi il salvataggio dell'euro è una speranza, non più una certezza. Di sicuro la politica, Angela Merkel o il suo ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble, si sono sempre rifiutati di ammettere l'esistenza di un piano B. Tutti sapevano che in una situazione di questo tipo era necessario prendere in esame l'ipotesi di una frammentazione dell'area euro o quanto meno dell'uscita della Grecia. Ma qui in Germania non se ne poteva parlare. Una situazione strana per una democrazia. Il primo ad avere il coraggio di dire quello che tutti sapevano è stato il ministro dell'economia Philip Roesler, un liberale: Atene può uscire e noi andremo avanti anche senza».
Il problema in questo caso è che parlare dell'ipotesi di un piano B, della dissoluzone dell'euro, contribuisce a realizzarla. I mercati si basano sul principio delle previsioni che si autorealizzano.
«Certo, questo è uno degli aspetti della questione. Ma la nostra è una democrazia e una democrazia vive sul confronto, sulla scelta tra alternative diverse. E queste alternative, fine dell'euro compresa, devono essere dibattute e non possono essere sottratte alla discussione pubblica».
In molti Paesi europei Angela Merkel è uno dei personaggi più impopolari. Le si imputano rigidità, e scarsa comprensione per le ragioni degli altri.
«Su un punto la Merkel ha ragione da vendere: non possiamo basare il nostro benessere sui debiti. E questo è un concetto pacifico in molti Paesi del Nord Europa, mentre nel Sud su questo punto c'è meno sensibilità. A suo svantaggio va detto invece che manca di empatia verso i Paesi in difficoltà e i veri drammi che in qualche caso stanno vivendo. E poi non è una federalista».
Che cosa intende?
«Io ricordo l'atteggiamento di Kohl: il suo principio era che in Europa la voce del Paese più piccolo contasse quanto quella del Paese più grande. Questo approccio si è perso. Per la prima volta la Germania usa la propria forza economica e politica per prescrivere agli altri quello che devono fare. La Merkel non coglie che l'Europa non può che essere una realtà multipolare. Non ha capito la possibilità offerta da una proposta di Nicolas Sarkozy, quella di creare un'unione mediterranea. Non coglie la possibilità di confronto insita nell'atteggiamento del nuovo presidente francese Hollande. Sembra non capire che la politica non si fa in laboratorio».
Allora ha ragione il ministro lussemburghese Juncker, presidente dell'Eurogruppo, quando dice che i tedeschi trattano l'Europa come fosse una loro filiale.
«Probabilmente esagera, anche se per certi versi coglie nel segno. L'equilibrio tra Paesi grandi e piccoli è diventato precario.
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