Il partito che brucia consenso per inseguire solo il dissenso

Renziani e bersaniani non sono mai d'accordo. E adesso sul Cavaliere si scambiano i ruoli

Il partito che brucia consenso per inseguire solo il dissenso

Il Cavaliere è nei guai e il Pd va in mille pezzi. Sì, avete letto bene: in crisi ci va il Partito democratico, non il Pdl. Tanto da guadagnarsi, ieri mattina, l'apertura dei due maggiori quotidiani: «Scontro nel Pd» (Repubblica), «Pd nel caos» (Corriere). Mentre l'Unità - mai nome fu tanto inappropriato - scivola involontariamente nell'ironia titolando su un Pd «pronto a tutto». Pronto, soprattutto, al litigio permanente, al dissenso sistematico, al sospetto e all'insinuazione, all'insulto, alla manovra e alla rissa, nonché a una proliferazione incontrollata di documenti, lettere aperte, «contributi» e mozioni.

La giornata di ieri è stata dedicata, per quanto possibile, alla ricomposizione interna, nel tentativo di spegnere gli ultimi focolai di polemica e ricompattare il partito almeno per le prossime settimane. «C'è stato un errore di comunicazione», ha sostenuto Cuperlo: che però non ha mancato di indicare le responsabilità di Epifani e del capogruppo Speranza, che non hanno speso neppure una parola per spiegare la decisione del Pd di votare a favore della sospensione dei lavori parlamentari chiesta dal Pdl.
Proprio quel voto ha dato fuoco alle polveri, riproponendo lo scontro fra i renziani e il resto del Pd sul classico tavolo da gioco dell'antiberlusconismo. Con una novità significativa, però: i paladini del no al Cavaliere sono ormai diventati i renziani, che non perdono occasione per segnalare l'innaturalità dell'alleanza Pd-Pdl, mentre il correntone bersaniano, che pure aveva combattuto fino all'ultimo contro l'ipotesi di Grande coalizione, oggi è disposto a pagare qualsiasi prezzo (o quasi) per difendere il governo.

Per capire perché, dobbiamo guardare al congresso del Pd, le cui scosse sono iniziate a febbraio, all'indomani dell'inaspettata sconfitta elettorale, e sono destinate ad intensificarsi sempre di più dopo l'estate. Il congresso, com'è noto, ruota su Matteo Renzi. E Renzi esiste (politicamente) in funzione e in relazione al governo. Se ci fosse la crisi e si andasse alle elezioni, il congresso sarebbe già chiuso: segretario o non segretario, il sindaco di Firenze correrebbe per palazzo Chigi. L'antiberlusconismo di Renzi, dunque, non ha nulla di ideologico né di giustizialista: è semplicemente il modo più efficace e popolare a sinistra per indebolire il governo e avvicinare le elezioni.
Con indubbia astuzia tattica, Renzi ha scelto di dar voce agli scontenti, peraltro sempre più numerosi, occupando così la prateria che due mesi fa era presidiata soltanto dei filo-grillini Civati e Puppato e da qualche sparuto prodiano, e soffiando sul fuoco delle tensioni che attraversano il correntone bersaniano, oggi costretto a difendere l'alleanza con Berlusconi pur di non cedere lo scettro del comando.

Il paradosso del congresso che il Pd sta celebrando a cielo aperto si può riassumere così: fra il Cavaliere e il sindaco di Firenze, il Pd sceglie il primo. A costo di patire più di un mal di pancia e di sprofondare nell'imbarazzo. La lettera dei 70 senatori (in gran parte vicini a Epifani e Bersani) promossa dal lettiano Francesco Russo, ne è un esempio illuminante: difende la scelta di votare a favore della sospensione dei lavori parlamentari, ma invoca uno «scatto d'orgoglio» e denuncia l'autolesionismo del gruppo dirigente: «Basta con gli autogol».

Ma è difficile che l'appello venga raccolto. Lo scontro fra le correnti è destinato ad inasprirsi nei prossimi mesi, soprattutto all'interno del blocco anti-renziano, dove non tutti saranno disposti a pagare il costo sempre più salato dell'alleanza con Berlusconi. A completare il quadro, non mancano i solisti in cerca di riflettori, come il senatore Casson, che insiste nel considerare ineleggibile il Cavaliere contro il parere del segretario del partito, o il «giovane turco» Matteo Orfini - l'unico della sua corrente rimasto parlamentare semplice - che ha rivolto ai renziani il grazioso epiteto di «sciacalli».

In assenza di un leader riconosciuto e condiviso - e non lo sono né il debole «traghettatore» Epifani, né i debolissimi capigruppo Speranza e Zanda - nel Pd ciascuno gioca la propria partita, e

soltanto chi dissente guadagna il diritto all'esistenza. Non è difficile prevedere che a farne le spese, prima o poi, sarà il governo: nonostante che a guidarlo sia, o forse proprio per questo, un autorevole dirigente del Pd.

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