«Non ho mai chiesto il rimpasto, continuo a non chiederlo». Matteo Renzi ieri su Facebook ha messo le mani avanti ribadendo quanto affermato sabato scorso al termine della riunione della segreteria del Pd. Le dimissioni del viceministro dell'Economia Fassina? «Sono una scelta politica - assicura il portavoce della segreteria Lorenzo Guerini - e non enfatizzerei una decisione che era già nell'aria».
È vero che in politica la smentita ha sempre il sapore di una doppia conferma, ma in questo caso si può fare un'eccezione. Vediamo il perché. Il tema di una «ristrutturazione» della compagine dell'esecutivo non è mai stato posto direttamente dal sindaco fiorentino. Al contrario, la questione è stata sempre ventilata da ambienti centristi non troppo distanti da Palazzo Chigi. Il premier Enrico Letta è concentrato sulla stesura dell'«Agenda 2014» (il patto di coalizione con il nuovo cronoprogramma degli interventi da effettuare) ed eventualmente valuterebbe - d'intesa con il segretario del Pd - «la sostituzione dei ministri non ritenuti più all'altezza del loro compito», fanno filtrare ambienti vicini al governo.
Ma come si sostituisce un ministro? E, soprattutto, chi sarebbero i «nominati» che dovrebbero abbandonare la casa del governo? La Costituzione non conferisce al presidente del Consiglio il potere di nomina e di revoca. Per liberare una casella le possibilità sono due: o si dimette il premier (e la sicurezza di riottenere l'incarico non c'è) o si dimette il ministro direttamente interessato. Visto che i dicasteri di maggiore interesse per i renziani sono Lavoro, Giustizia, Esteri e, a seguire, Sviluppo ed Economia, è difficile che Giovannini, Cancellieri, Bonino e Zanonato (per non dire di Saccomanni) facciano spontaneamente le valigie dicendo a Renzi: «Prego, si accomodi».
Ecco, dunque, che l'arcano è svelato. L'abile mossa di Letta, dei centristi e della minoranza anti-renziana del Pd è proprio questa: scaricare sul giovane segretario la responsabilità di una crisi del governo «amico». Ma Matteo e il suo team sono troppo scafati per cadere nel tranello. «Non ci risulta che il premier voglia chiederci di aumentare il nostro peso nel governo», sottolinea il renziano Sandro Gozi ribadendo che «a noi piuttosto interessa che l'esecutivo si dia da fare sulle riforme del lavoro, della legge elettorale e delle unioni civili oltreché sui rapporti con l'Europa che riguarderanno la nostra prossima proposta».
Il toto-poltrone, però, resta un tormentone. La possibilità più concreta è che il guru di Renzi, il deputato ex McKinsey Yoram Gutgeld, possa prendere il posto di Fassina ove Letta ritenga di avanzare la proposta. In fondo il dimissionario aveva le deleghe sulle partecipate come Eni, Enel e Finmeccanica che non sono certo un tema secondario. È più difficile, invece, che il ministro dei Rapporti con le Regioni, il renziano Delrio, possa ottenere una «promozione» se qualche posto non si libera. Idem per il responsabile Welfare del partito Davide Faraone: anche se Giovannini lasciasse, i «montiani» Ichino e Tinagli rivendicano un posto al sole.
Eppure qualche giorno fa ha scatenato polemiche un'intervista della responsabile Trasporti e governatore friulano, Debora Serracchiani, nella quale adombrava la possibilità di seguire Matteo a Roma. «Non si dimetterà prima della fine del suo mandato, il resto è fantapolitica», assicura il senatore triestino Ettore Rosato. Ma a Palazzo Chigi, in qualche modo, Renzi e i suoi vogliono arrivarci.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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