La rivolta giapponese contro il finto sushi

In Italia non sono autentici sette ristoranti nipponici su otto. E quasi sempre sono cinesi "travestiti". Tokyo in trattativa con l'Italia per introdurre un marchio di garanzia

La rivolta giapponese contro il finto sushi

Roma - Sushi, m'hai provocato e io me te magno! Facile a dirsi. Perché la gran parte dei ristoranti che propongono il washoku, vale a dire la cucina giapponese tradizionali, di giapponese hanno ben poco. Generalmente sono gestiti da cinesi che dopo la psicosi dell'aviaria hanno deciso di convertire il loro locale: da un ideogramma all'altro, da un occhio a mandorla all'altro (tanto chi di noi riesce a distinguere al primo colpo?), dagli involtini primavera alla tempura. Naturalmente ciò non vuol dire necessariamente che il sushi mangiato nelle «Grandi Muraglie» addobbate da «Fujiyama» sia di scarsa qualità. Ma qualche dubbio è lecito. E anche sano, visto che il pesce crudo se non adeguatamente trattato (in particolare se non viene congelato prima di essere servito) può trasmettere un parassita micidiale come l'Anisakis.

Partiamo dalle cifre. Secondo il centro studi della Fipe (la federazione dei pubblici esercizi) a Firenze solo 6 ristoranti giapponesi su 50 hanno uno chef nato nella terra del Sol Levante. Estendendo questo dato all'intera penisola, si può affermare senza andare troppo lontano dalla realtà che dei 458 nipporistoranti (il 6,60 per cento dei ristoranti etnici) solo 55 sono autentici: 1 ogni 8. Gli altri giocano sull'equivoco, sulla moda, sulla voglia di tanti nostri connazionali di mangiare sushi e sashimi (cibo considerato sano, ipocalorico e anche gustoso) a prezzi bassi, tanto più in tempi calamitosi come quelli che viviamo. Prezzi bassi che un ristorante giapponese doc non può certo garantire, essendo la materia prima di qualità costosa e la lavorazione difficile, quasi una cerimonia. Da qui l'idea di conferire una sorta di marchio ai ristoranti giapponesi garantiti, a cui stanno lavorando gli esponenti del Jetro, l'ente governativo di promozione del commercio estero di Tokyo, e la Fipe.

In attesa del «bollino», come scegliere un ristorante giapponese autentico? «Essendo un giapponese che fa cucina italiana non mi sorprendo certo se un cinese fa cucina giapponese», dice diplomaticamente Kotaro Noda, 38 anni, primo chef giapponese a conquistare una stella Michelin all'enoteca La Torre di Viterbo e oggi al ristorante Magnolia dello Jumeirah Grand Hotel via Veneto di Roma. Va bene, ma se lei dovesse andare a mangiare giapponese nella capitale, dove andrebbe? «Certo ne sceglierei uno con lo chef mio connazionale, anche se ci sono ottimi ristoranti giapponesi-non-giapponesi come la catena Wagamama di Londra. Comunque è opportuno evitare posti troppo economici, visto che la cucina giapponese fatta in Italia è tutta basata sul pesce crudo, che è una materia prima costosa. E poi basarsi sul buon senso e sul passaparola».

Marco Sabellico è uno dei più noti giornalisti enogastronomici italiani, tra i curatori della guida Vini d'Italia del Gambero Rosso, e tra pochi giorni sposerà una giapponese. Ciò fa di lui un osservatore privilegiato del fenomeno. «Purtroppo - si duole - la qualità media non è alta, a Roma peggio che a Milano, più ricca di ristoranti autentici». Come distinguere un vero sushi bar? «Il consiglio è fare un po' d'occhio all'aspetto del personale: basta un po' di abitudine per distinguere i giapponesei dai cinesi. E poi ci si può sempre far insegnare da qualcuno a chiedere in giapponese se il pesce è fresco e studiare la reazione. Inoltre gli chef del sushi lavorano a vista». Ma è poi così importante che a preparare sushi e sahimi sia un giapponese? La cucina non è patrimonio universale? «Non per la cucina giapponese. Ci vogliono 15 anni per imparare a maneggiare il pesce crudo, chef di questo genere in Giappone sono come dei samurai. Non è una cosa che si può imparare con un corso di pochi giorni».

E se lo chef è donna? «Orrore. Le donne non possono maneggiare il pesce crudo. Questione di temperatura corporea, dicono. Fatto sta che una volta da Harrod's a Londra mia moglie vide una donna toccare del sushi e si rifiutò di mangiarlo».

Ma insomma, è poi una truffa se un cinese prepara il sushi? «Non è una truffa il fatto che lo prepari, ma il fatto che si faccia passare per giapponese. Io se sono un ristoratore ho tutto il diritto di mettere un piatto marocchino nel mio menu. Ma questo non mi autorizza a farmi chiamare Mustafà».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica