Sì al lavoro: quella riforma è già nata orfana

Quando una riforma nasce orfana c’è poco da stare allegri. In un Paese ostaggio delle corporazioni e dei veti incrociati questa dovrebbe essere una buona notizia, e invece no

Sì al lavoro: quella riforma è già nata orfana

Quando una riforma nasce orfana c’è poco da stare allegri. In un Paese ostaggio delle corporazioni e dei veti incrociati questa dovrebbe essere una buona notizia, e invece no. Perché la rivoluzione del mondo del lavoro promessa dal ministro Elsa Fornero è finita in un’operazione di maquillage là dove serviva il bisturi. Da cui tutti oggi, a destra e a sinistra, prendono le distanze. Questa non è una riforma che aiuta la nuova occupazione «stabile» perché «la flessibilità è stata mantenuta», come ricorda l’ex ministro Tiziano Treu, che con i suoi «contratti di formazione e lavoro» da 600mila lire a metà anni Ottanta si inventò una forma di accesso al lavoro parallela a quella tradizionale. Quello che mancava, allora come oggi, è un automatismo vero da far scattare come una tagliola quando si abusa della flessibilità, quando si passa da un contratto a un altro. La boscaglia di tipologie è stata sfrondata ma non cancellata: «Non è una riforma epocale ma un compromesso riformista», per dirla con le parole della presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro. Bisognava avere il coraggio di incidere sull’articolo 18 e sulla sostanziale impossibilità di licenziare un dipendente. E invece l’unico lavoro che aumenterà è quello dei magistrati, sui cui si riverseranno i contenziosi sui licenziamenti. «La disciplina del licenziamento individuale è pasticciata, complicata e creerà molti più problemi di prima - dice l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi - l’esecutivo si è piegato ai veti della Cgil». È il sindacato, ancora una volta, il cuore del problema? Sì. La Cgil si ostina ­legittimamente, dal suo punto di vista - a non mettere quei correttivi all’articolo 18 che l’Europa ci chiede. Con il risultato che si fa prima a far fallire un’azienda (magari trasferendola altrove, con un costo del lavoro decisamente inferiore) che a licenziare un dipendente, e gli allarmanti dati Istat lo dimostrano. Quello che la riforma non risolve è chi paga il cosiddetto «livello di protezione sociale», quando qualcuno perde il posto, soprattutto se precario, perché l’impresa salta.

Le imprese? Il fisco, cioè gli italiani? Alla «non riforma» manca soprattutto il coraggio di affrontare il cuore del problema: il merito e la produttività. Il lavoro è un diritto, ma guadagnare di più perché si è bravi non è una colpa ma un’opportunità.Oltre che un dovere.

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