Adesso che abbiamo letto le dichiarazioni del ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni, siamo più tranquilli, quasi rassegnati: anch'egli, come tutti coloro che l'hanno preceduto alla guida del suddetto dicastero, sostiene che l'imperativo categorico è ridurre la spesa pubblica, causa principale del formidabile debito di cui fa comodo ignorare i responsabili.
Non possiamo affermare che l'ex dirigente di Bankitalia fallirà, come hanno fallito Mario Monti e chiunque abbia provato a usare le forbici. Non sarebbe serio giudicare un uomo di governo prima di averlo visto all'opera. Tuttavia i disastrosi precedenti ci autorizzano a pensare che pure lui andrà incontro a tali difficoltà da rendere velleitarie le sue buone intenzioni.
Quante volte, negli ultimi trent'anni, dalla bocca di politici e tecnici sono uscite belle parole, identiche a quelle pronunciate da Saccomanni nell'intervista rilasciata ad Antonella Baccaro del Corriere della Sera? Parole sempre rimaste lettera morta e che hanno riempito pagine e pagine del famoso libro dei sogni. Perché dovremmo credere che il ministro in carica addetto ai conti sia diverso dai colleghi avvicendatisi sulla poltrona adesso occupata da lui, e quindi capace di compiere il miracolo, cioè trasformare in realtà l'auspicato ridimensionamento della spesa pubblica, commisurandola alle nostre scarse risorse?
Probabilmente egli meriterebbe un'apertura di credito da parte nostra, ma saremmo ipocriti se dicessimo che ci consegniamo a lui sicuri di esserne salvati. Preferiamo non sbilanciarci in attesa che i suoi progetti entrino nella fase esecutiva. Siamo scettici come tutti coloro che, essendo stati scottati dall'acqua bollente, hanno paura anche di quella fredda.
Alcuni segnali non ci incoraggiano a essere ottimisti. Saccomanni farebbe bene a spiegarci, per rassicurarci, quali siano stati i risultati della spending review strombazzata da Monti. Che fine abbiano fatto gli studi di Dino Piero Giarda sui tagli indispensabili. A che cosa sia servita la preziosa consulenza del professor Francesco Giavazzi in materia di risparmi e riorganizzazione delle uscite.
Possibile che il lavoro di tanti cervelloni si sia concluso con un nulla di fatto? Che le carte siano state nascoste e dimenticate in qualche cassetto polveroso del ministero dell'Economia? Non conviene cercarle e magari utilizzarle, evitando di ricominciare da capo a spulciare il bilancio per individuare le voci di troppo da abbattere?
Un altro punto su cui il governo insiste è la disoccupazione, specialmente giovanile. Ovvio, è un'emergenza. Ma non comprendiamo come Enrico Letta e la sua squadra possano immaginare di risolvere il problema a tavolino, con provvedimenti che non è ingeneroso definire pannicelli caldi. L'esecutivo d'altronde non ha gli strumenti per creare posti nelle fabbriche e negli uffici. Il collocamento non è un mestiere suo. Tocca agli imprenditori incrementare la produzione e assumere manodopera, ma se costoro sono oberati non di lavoro bensì di tasse, come fanno a imporsi sul mercato? Bisogna metterli in condizione di reggere la concorrenza, di non svenarsi per pagare l'Irap (follia nazionale) e l'energia più cara del mondo, gravata da un'accisa mostruosa.
Le aziende italiane in altra epoca si svilupparono non con l'aiuto della politica, ma profittando della sua indifferenza. Oggi lo Stato, invece, è interessatissimo alle imprese in quanto considerate prede da spolpare. Le ha ridotte quasi tutte a scheletri, e ora pretende - pur continuando a divorarne le poche carni rimaste - che esse offrano stipendi a giovani e vecchi esodati.
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