Santoro arruola figli dei boss e riscrive il processo Dell'Utri

Servizio pubblico arruola i figli dei boss per la solita crociata anti Berlusconi. Il conduttore: "Il senatore Pdl e Riina vanno trattati allo stesso modo". Anche la Guzzanti fa flop

Santoro arruola figli dei boss e riscrive il processo Dell'Utri

«La verità», ha intitolato Michele Santoro la puntata di ieri sera di Servizio pubblico dedicata – in teoria - alle stragi di mafia. Non occorre essere Ponzio Pilato per domandarsi che cos’è la verità, quando si parla di Cosa nostra, di pentiti, di boss, di trame e depistaggi. Se è Santoro a impugnare questa parola, bisogna chiederselo a prescindere. Perché la puntata di ieri sera degli ultimi giapponesi dell’antiberlusconismo non aveva come obiettivo quello di diradare la nebbia dai misteri delle cosche, come lasciava intendere l’annuncio dell’intervista esclusiva al figlio di Bernardo Provenzano, ma di rispolverare il teorema demolito nei giorni scorsi dalla Cassazione, non da un pretore di provincia. Cioè, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono legati alla mafia.

Il processo a Dell’Utri è da rifare. C’è una sentenza della Suprema Corte che lo stabilisce, ma oggi le parti sono invertite. Gli abituali portavoce dei magistrati, i Santoro e i Travaglio, si scagliano contro un pronunciamento dei giudici. E del resto, l’altro giorno, un giornale come il Fatto quotidiano ha tentato di demolire il verdetto della Cassazione sventolando la requisitoria del pubblico ministero. La requisitoria ha maggiore valore della sentenza. La «loro» verità è sempre più vera.

Santoro è andato subito al punto, senza girarci troppo attorno. A metà della sua arringa che ha aperto la puntata, si è lasciato sfuggire che «non ci sono riscontri giudiziari» a tutto quello che diceva. Ma fa niente, l’importante è alzare il polverone, puntellare una tesi smentita nelle aule di giustizia. Si dovrebbe parlare di Falcone e Borsellino, delle stragi del 1992 e 1993, della – ancora presunta – trattativa tra Stato e mafia. Ma quando le telecamere cominciano a inquadrare in primo piano la bianca chioma santoriana, si capisce dove si andrà a parare.

«Quando giudichiamo Totò Riina o Marcello Dell’Utri – esordisce il giornalista - dobbiamo trattarli allo stesso modo. Un boss e un politico debbono essere uguali di fronte alla legge. Esiste una complicità tra colletti bianchi e mafia denunciata da Libero Grassi». Il quale fu ucciso per questa coraggiosa denuncia solitaria, aggiunge Santoro. «Se Libero fosse vivo, avrebbe voluto due cose: primo, che esistesse una legge che punisse con chiarezza le frequentazioni sistematiche con i mafiosi e anche la richiesta di voti; secondo, una politica che si desse da sola regole per espellere chi intrattiene tali rapporti».

Ed ecco l’affondo. «Tanti anni fa Dell’Utri litigò con Berlusconi e andò a lavorare con il finanziere Rapisarda a Milano in via Festa del Perdono, il quale gli affidò la gestione di due società che fecero bancarotta, riconducibili a due tra i più grandi trafficanti di droga del mondo, i Contrera Caruana. Accadde che Rapisarda andò a Palermo a testimoniare a processi su Berlusconi e Dell’Utri. Disse che Dell’Utri veniva frequentemente visitato dal boss Bontade: una volta li trovò assieme e Dell’Utri aveva valigie piene di soldi destinati alle tv di Berlusconi. Dell’Utri ha sempre negato tutto questo, e non sono state trovate conferme giudiziarie».

Continua Santoro: «Dell’Utri invece disse qualcosa di più grave: i mafiosi non venivano a trovare lui, ma Rapisarda, confermando così che i mafiosi andavano davvero in via Festa del Perdono, nella casa in cui Dell’Utri creò la prima sede ufficiale di Forza Italia. In un altro Paese sarebbe scoppiato il putiferio, da noi no. Addirittura la classe dirigente milanese ha scelto Dell’Utri come senatore della Repubblica».

Questo è il teorema di Santoro. Fabrizio Cicchitto, che doveva fungere da San Sebastiano infilzato dalle frecce di Servizio pubblico, si è rifiutato di partecipare. Il processo viene imbastito da Walter Veltroni, il quale osserva che il 26 gennaio 1994 Berlusconi annuncia la discesa in campo e il 27 vengono arrestati i fratelli Graviano, boss mafiosi.

Da New York (deve condurre indagini oltreoceano?) interviene il pm Antonio Ingroia, magistrato censurato dal Csm. «La verità stenta a venire fuori perché è imbarazzante». Soprattutto quando questa «verità» è già decisa a tavolino, colpevoli compresi.

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