Dappertutto - all'università, per strada, sul web - sento giovani che pensano di lasciare l'Italia, che considerano il trasferimento all'estero non come un ripiego, ma come un'ottima soluzione per la vita. Per lo più non sono né disoccupati cronici né cervelli in fuga. Sono ragazzi e ragazze normali, forse soltanto (...)
(...) più intraprendenti della media, che giudicano l'Italia un Paese inadeguato alle loro aspettative. E le aspettative non riguardano semplicemente il lavoro, il guadagno, ma anche se non soprattutto lo stile di vita, le prospettive per il futuro.
Sono «choosy», come dichiarò il ministro Fornero attirandosi critiche a non finire? Un politico dovrebbe essere più astuto, di certo più prudente, ma ora il giudizio di Fornero parrebbe confermato da una ricerca del Censis: le imprese artigiane preferiscono assumere ultratrentenni perché i più giovani avrebbero scarsa preparazione tecnica (secondo il 39,5 per cento degli intervistati), aspettative economiche troppo alte (28 per cento), difficoltà a sopportare la fatica (25,1 per cento). Oltre un'impresa su due riconosce ai lavoratori stranieri la disponibilità a svolgere mansioni di cui gli italiani non vogliono sentire parlare.
Giovani troppo schizzinosi, dunque? No, è colpa della scuola, risponde il 76,6 per cento delle piccole e medie imprese, che non sa preparare i ragazzi ai bisogni delle aziende. In effetti si ha l'impressione, suffragata dai fatti, che le scuole professionali e quelle di concetto non sappiano preparare al lavoro e ai sacrifici che il lavoro comporta, che siano più istruttive (quando lo sono) che formative del carattere, della personalità e della preparazione alla vita sociale. In compenso è netta la sensazione che proprio la scuola dia - anche a chi fa studi professionali, figurarsi agli altri - una formazione abbastanza sofisticata da illudere sull'utilizzo che se ne potrà fare nel mondo del lavoro, fomentando aspettative che non potranno venire soddisfatte.
Tuttavia non si deve dare sempre ogni colpa alla scuola e a chi ci lavora. La scuola è un'espressione della società che la produce, e di quella società condivide i difetti e i limiti, oltre che i meriti e le qualità. La nostra società e i modelli che la rappresentano, per esempio la politica e la televisione, forniscono ai giovani una rappresentazione scintillante della vita, piena di soddisfazioni e dunque di necessità da soddisfare, di vittorie ma non delle fatiche necessarie a raggiungerle. A X Factor trionfa appunto chi ha il «fattore X», ovvero una dote naturale, non chi si prepara e sgobba di più per vincere; la politica non è tanto il campo del fare per ottenere un risultato, quanto quello dell'apparire per promettere, poi, di fare. Eccetera. Anche la scuola, infine, non è né abbastanza competitiva né abbastanza selettiva per essere anche scuola di vita.
Internet, film, viaggi e televisione danno alle nuove generazioni una conoscenza del mondo quale mai nessuna generazione prima. Molto spesso è una conoscenza virtuale, e dunque superficiale, che porterà al fallimento e alla delusione chi tenta l'avventura senza strumenti sufficienti. Tutti sanno che gli Stati Uniti, o l'Australia, permettono carriere più veloci e meno condizionate da raccomandazioni, figliolanze, furbate. Pochi però conoscono Weber, l'etica protestante e lo spirito del capitalismo, per cui in quei Paesi il principio dominante è che solo se si è bravi si viene premiati. E dunque i più vanno a sbattere tremende musate. Ma è anche vero, tanto più, che là i bravi hanno davvero maggiori probabilità di farcela: per cui, alla fine, è sensato e giusto che molti giovani vadano in cerca di mondi migliori.
Da noi, senza un lungo e faticoso lavoro generale di cambiamento dei modelli (culturali, sociali, politici) e delle strutture (culturali, sociali, politiche), non ne usciremo. E, fra quelli che resteranno, continueremo ad avere dei giovani «choosy» senza però potergliene fare una colpa.
www.giordanobrunoguerri.it
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di Giordano Bruno Guerri
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