Cronache

Se ora dobbiamo temere anche la fine della pasta

Una ricerca apparsa su Newsweek rivela che il frumento è a rischio per il riscaldamento globale. Ma c'è da fidarsi?

Se ora dobbiamo temere anche la fine della pasta

In futuro non potremo più mangiare pasta, ma neanche il pane. È l'ennesimo allarme, lanciato dal settimanale americano Newsweek che raccoglie una serie di studi e ricerche che documenterebbero una graduale perdita di raccolti di frumento a causa del riscaldamento globale. E si sa, senza frumento niente pasta.
A corroborare questa tesi sta ad esempio l'osservazione di un professore dell'Università di Stanford, David Lobell, secondo cui negli ultimi 50 anni è bastato un aumento di temperature nell'ordine di qualche centesimo di grado per provocare una perdita del 5,5% del raccolto di grano.

Entro il 2050, afferma poi l'International Food Policy Research Institute, la cosiddetta cintura mondiale del frumento - Stati Uniti e ovest del Canada, il nord della Cina, India, Russia e Australia - dovrà fare i conti con estati sempre più calde, così che la produzione di grano nello stesso periodo potrebbe diminuire tra il 23 e il 27%.

Dobbiamo allora rassegnarci a fare a meno della pasta, o a scatenare una guerra per il gusto di farci una carbonara? Niente affatto, a meno che l'astinenza da pasta non sia imposta dal medico. In realtà l'articolo di Newsweek, che è solo l'ultimo di una lunga serie di articoli che dipingono scenari del genere, non tiene conto di molti fattori che contribuiscono alla produzione di grano così come di tutti i cereali.

Senza neanche soffermarci sul fatto che è tutto da dimostrare che le emissioni di anidride carbonica siano dirette responsabili dell'aumento delle temperature, dobbiamo però anzitutto rilevare che dal 1998 le temperature a livello globale non stanno più crescendo, e basta verificare i dati della Nasa per verificarlo.

Ma la cosa che è puntualmente ignorata ogni volta che si lanciano allarmi del genere è che in realtà i cambiamenti climatici da sempre accompagnano la vita dell'uomo e quindi anche la storia dell'agricoltura.

Come è sempre successo gli agricoltori e gli agronomi si adattano a questi cambiamenti, adattando le proprie coltivazioni o introducendo nuove varietà. Vale a dire che riduzioni di produzione nelle aree tradizionali potranno essere facilmente bilanciabili dalla disponibilità di aree attualmente non adatte alla coltivazione del frumento, oppure attraverso il miglioramento genetico si potranno introdurre nuove varietà che si adeguano a climi diversi.

Del resto già oggi è così: il frumento è una pianta estremamente versatile, peraltro di origine steppica (temperature calde e piogge scarse) e ci sono centinaia di varietà di frumento, ognuna con caratteristiche proprie, che si adattano a diverse condizioni climatiche.

Si coltiva frumento nel Neghev (Israele) e nel sud della Spagna, dove ci sono precipitazioni nell'ordine dei 250-300 mm l'anno; e si raccoglie frumento in zone montane dove ogni anno si contano 2500 mm di pioggia. E se nel nord Italia il frumento si raccoglie a giugno, in Francia - dove è più piovoso - si arriva fino alle fine di luglio o agosto. Inoltre ammesso anche che per il frumento si vada verso un declino dei raccolti, gli stessi mutamenti climatici possono favorire altre colture come il masi e il riso.

Insomma, l'unica cosa da temere è il venir meno della creatività e dell'ingegno dell'uomo che in tanti secoli di sviluppo sono stati la chiave per vincere le difficoltà delle condizioni naturali.

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