Qualcuno dirà (e se non lo dice nessuno lo dico io): «E bravo lui, difende il finanziamento pubblico perché un parlamentare fa parte della casta e difende i suoi interessi ». In un certo senso è vero: a me personalmente non viene in tasca un centesimo, come alla maggior parte dei deputati e senatori, ma è vero che il personale che forma la rappresentanza, cioè noi, pensiamo che il finanziamento pubblico della politica sia indispensabile perché la politica, cioè la macchina della democrazia costa ovunque, in Italia come in Germania, in Francia come in Australia, una barca di miliardi. La democrazia è un lusso sfrenato: costano gli apparati, i giornali, i parlamenti, gli assistenti, le trasferte, gli uffici, gli stipendi e le pensioni. Sono come tutti sappiamo, miliardi. Se ne potrebbe fare a meno? Della democrazia, intendo. Certo che sì: senza ricorrere alle giunte militari o alle dittature ideologiche, per governare secondo regole economiche e che salvaguardino le libertà fondamentali (forse) potrebbe bastare anche un Consiglio d’amministrazione come quello che attualmente siede a Palazzo Chigi. Si può fare, ma poi finisce ogni potere di controllo e oggi se gli scandali scoppiano è perché il controllo c’è, la magistratura con tutte le sue storture funziona, i giornali hanno ed esprimono idee diverse e dunque viviamo i vantaggi di una democrazia, non di una dittatura, sia pure morbida e mascherata.
Dunque,l’idea di chiudere il rubinetto al finanziamento pubblico ai partiti, o ai cittadini che privatamente si consorziano in partiti ( i partiti sono associazioni private e non pubbliche e chiunque può creare partiti, come hanno fatto Bossi, Di Pietro, Berlusconi) significa smettere di finanziare la democrazia e tornare al vecchio problema: riuscire a buttare l’acqua sporca senza buttare il bambino che ci sta dentro. Si dirà: ma negli altri Paesi democratici? Risposta: in tutti i Paesi democratici esiste il finanziamento pubblico dei partiti e della politica. In America, dove esiste una forte tradizione di finanziamento privato dei candidati e dei partiti (io stesso dall’Italia ho versato un modesto finanziamento al candidato repubblicano che preferivo pochi giorni fa) esiste il doppio standard: chi sceglie il finanziamento pubblico non può ricorrere al finanziamento privato. Ma il contribuente americano, il mitizzato e ultrapotente «tax payer», paga per avere una democrazia come servizio per il suo personale e privato tornaconto.
Ed è su questo punto che in Italia si è verificata la rottura: gli italiani non vedono più il loro tornaconto nella democrazia e nella politica, ma ne vedono soltanto gli sprechi, gli scandali, l’oltraggio. Ed è questa lacerazione che va riparata e non con una toppa colorata ma con un cambio di stile, di leggi, di sistema di controllo. Come, è un problema sia legislativo che culturale. I partiti stanno facendo da tempo magre figure anche perché non hanno saputo o voluto o potuto fare quel che Monti fa, oppure altro che avrebbe evitato la situazione in cui ci troviamo. Ma sono chiacchiere sul possibile passato e indefinibile presente. Noi dobbiamo prendere in mano la situazione e governare il futuro di un Paese democratico e non di una repubblica degli ananas ( le banane ci hanno stufato). E allora occorre pretendere sanzioni, dimissioni, nuove e diverse regole, controlli spietati e spietati castighi. Ma dire che bisogna smettere di finanziare la politica significa o tornare ai sistema di corruzione infinitamente peggiore dell’Italietta giolittiana prefascista tutta in mano ai boss e ai potentati anche mafiosi, o rinunciare alla politica come servizio pubblico. I cittadini devono anche imparare a pensare che i partiti e i leader li hanno votati loro e che ne sono responsabili.
Dunque, licenzino senza pietà quando verrà il momento. Ma intanto occorre respirare profondamente e contare fino a cento prima di ripetere questo mantra della fine del finanziamento pubblico, a meno che non si voglia una dittatura, ma allora lo si dica francamente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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