Senza soldi ai partiti democrazia a rischio

L'alternativa a questo sistema è un dilagare della corruzione o una dittatura. Anche se è giusto punire duramente chi sbaglia

Senza soldi ai partiti democrazia a rischio
Un solo grido si leva dal popo­lo dopo gli scandali della Mar­gherita e della Lega: «Basta con il finanziamento dei parti­ti, non dategli più una lira!». E poi per buon peso: «A morte». È popolare, viene dal cuore, viene anche dal ventre e sem­bra lampante: noi finanziamo i partiti con il denaro pubbli­co, il nostro di pensionati con la cinghia stretta, di padri di famiglia con il mensile ridotto, e guardate questa massa di ma­scalzoni che uso ne fa. Insinuo an­che: gira voce, persino Beppe Grillo lo va gridando e mi risulta che non se lo sia inventato, che al­tre mazzate stiano per cadere su altre teste e altri partiti, allargan­do a macchia d’olio lo scandalo. Grillo grida sperando di fermare la macchina già in moto e noi non sappiamo se ci riuscirà o no, e ne­anche se è sperabile che si fermi. In fondo, come dicevano i roma­ni «oportet ut scandala eve­niant », è bene che scoppino gli scandali se vogliamo mettere fi­ne alla causa degli scandali. E allo­ra, d’accordo, mettiamo fine alla causa. Ma la causa non è il finan­ziamento pubblico, ma il com­p­ortamento privato di un bene af­fidato ai partiti attraverso soldi pubblici. Insomma, se il Trota ci si paga le cose sue, è una porche­ria del Trota, non del sistema.

Qualcuno dirà (e se non lo dice nessuno lo dico io): «E bravo lui, difende il finanziamento pubbli­co perc­hé un parlamentare fa par­te della casta e difende i suoi inte­ressi ». In un certo senso è vero: a me personalmente non viene in tasca un centesimo, come alla maggior parte dei deputati e sena­tori, ma è vero che il personale che forma la rappresentanza, cioè noi, pensiamo che il finanzia­mento pubblico della politica sia indispensabile perché la politi­ca, cioè la macchina della demo­crazia costa ovunque, in Italia co­me in Germania, in Francia come in Australia, una barca di miliar­di. La democrazia è un lusso sfre­nato: costano gli apparati, i gior­nali, i parlamenti, gli assistenti, le trasferte, gli uffici, gli stipendi e le pensioni. Sono come tutti sappia­mo, miliardi. Se ne potrebbe fare a meno? Della democrazia, inten­do. Certo che sì: senza ricorrere alle giunte militari o alle dittature ideologiche, per governare se­condo regole economiche e che salvaguardino le libertà fonda­mentali (forse) potrebbe bastare anche un Consiglio d’ammini­s­trazione come quello che attual­mente siede a Palazzo Chigi. Si può fare, ma poi finisce ogni pote­re di controllo e oggi se gli scanda­li scoppiano è perché il controllo c’è, la magistratura con tutte le sue storture funziona, i giornali hanno ed esprimono idee diver­se e dunque viviamo i vantaggi di una democrazia, non di una ditta­tura, sia pure morbida e masche­rata.

Dunque,l’idea di chiudere il ru­binetto al finanziamento pubbli­co ai partiti, o ai cittadini che pri­vatamente si consorziano in par­titi ( i partiti sono associazioni pri­vate e non pubbliche e chiunque può creare partiti, come hanno fatto Bossi, Di Pietro, Berlusconi) significa smettere di finanziare la democrazia e tornare al vecchio problema: riuscire a buttare l’ac­qua sporca senza buttare il bam­bino che ci sta dentro. Si dirà: ma negli altri Paesi democratici? Ri­sposta: in tutti i Paesi democrati­ci esiste il finanziamento pubbli­co dei partiti e della politica. In America, dove esiste una forte tr­a­dizione di finanziamento privato dei candidati e dei partiti (io stes­so dall’Italia ho versato un mode­sto finanziamento al candidato repubblicano che preferivo po­chi giorni fa) esiste il doppio stan­dard: chi sceglie il finanziamento pubblico non può ricorrere al fi­nanziamento privato. Ma il con­tribuente americano, il mitizzato e ultrapotente «tax payer», paga per avere una democrazia come servizio per il suo personale e pri­vato tornaconto.

Ed è su questo punto che in Ita­lia si è verificata la rottura: gli ita­liani non vedono più il loro torna­conto nella democrazia e nella politica, ma ne vedono soltanto gli sprechi, gli scandali, l’oltrag­gio. Ed è questa lacerazione che va riparata e non con una toppa colorata ma con un cambio di sti­­le, di leggi, di sistema di control­lo. Come, è un problema sia legi­slativo che culturale. I partiti stan­no fac­endo da tempo magre figu­re anche perché non hanno sapu­to o voluto o potuto fare quel che Monti fa, oppure altro che avreb­be evitato la situazione in cui ci troviamo. Ma sono chiacchiere sul possibile passato e indefinibi­le presente. Noi dobbiamo pren­dere in mano la situazione e go­vernare il futuro di un Paese de­mocratico e non di una repubbli­ca degli ananas ( le banane ci han­no stufato). E allora occorre pre­tendere sanzioni, dimissioni, nuove e diverse regole, controlli spietati e spietati castighi. Ma di­re che bisogna smettere di finan­ziare la politica significa o torna­re ai sistema di corruzione infini­tamente peggiore dell’Italietta giolittiana prefascista tutta in ma­n­o ai boss e ai potentati anche ma­fiosi, o rinunciare alla politica co­me servizio pubblico. I cittadini devono anche imparare a pensa­re che i partiti e i leader li hanno votati loro e che ne sono respon­sabili.

Dunque, licenzino senza pietà quando verrà il momento. Ma intanto occorre respirare pro­fondamente e contare fino a cen­to prima di ripetere questo man­tra della fine del finanziamento pubblico, a meno che non si vo­glia una dittatura, ma allora lo si dica francamente.

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