Slogan saccenti e contraddittori, la sua influenza ora è ridotta all'osso

RomaMonti si lecca le ferite dopo il flop del suo centrino. Alla Camera 37 seggi, al Senato soltanto 19: non abbastanza per fare da stampella ad alcuno. Né al Pdl né al Pd. Ininfluente. Il Professore dirà la sua in un eventuale governo delle larghissime intese ma con un peso specifico ridotto all'osso. Alle 12 il premier fa il punto della situazione con i ministri Grilli e Moavero Milanesi e con il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco. Guarda alle reazioni dei mercati ma il senatore a vita ci tiene a rassicurare tutti: «Le turbolenze che potrebbero caratterizzare i mercati da domani saranno meno gravi di quelle di altri momenti». Deluso è deluso. Troppi errori commessi dal Professore che, tuttavia, stenta a riconoscerli. Vediamo i principali.
Monti s'è fidato troppo del guru dei flussi elettorali, Roberto D'Alimonte. Il professore, poco prima di Natale, aveva assicurato al premier un risultato elettorale di tutto rispetto: 15% con margini di crescita. Esclusa, invece, la possibilità che il premier non raggiungesse l'8% in tutte le Regioni. Da qui la convinzione di essere determinante per formare un governo e influenzarne la corsa. La realtà è ben diversa: 9,1% al Senato e 8,3% alla Camera.
Altro errore: affidarsi ai consigli di Martin Sorrell e David Axelrod, entrambi leader mondiali della comunicazione e spin doctor di Obama. Vedendo Monti rassicurante, preparato ma freddo, distaccato e impalato, Sorrell gli ha consigliato un cambio di marcia. Servono più cattiveria e messaggi più semplici e chiari, è stato il suggerimento di Sorrell. Il suo motto: «Un leader politico deve far sognare gli elettori». Axelrod, invece, lo ha invitato a screditare l'avversario. Monti, da un certo punto della campagna elettorale in poi, è parso più cattivo e duro. Ma anche più saccente e borioso. Non è bastato il cane Empy a renderlo più umano. In più ha cominciato a lanciare messaggi contraddittori, specie sulle tasse: all'inizio intoccabili, poi da abbassare di molto. Insomma, ha rincorso Berlusconi sul suo campo con scarsa credibilità.
Altro errore: imbarcare Fini e Casini. Con forte il vento anticasta e il desiderio di guidare una nuova forza della società civile, il Professore ha corso con due big della casta. In Parlamento dal 1983, traditori di professione, maestri delle alchimie di Palazzo, Fini&Casini si sono aggrappati al loden nella speranza di non sparire. Ma hanno appannato l'immagine di novità della coalizione. È andata a finire che Monti ha di fatto prosciugato il bacino elettorale dei suoi compagni di strada senza acquistare nuovi adepti.
Quarta cantonata: apparire come il portavoce della Merkel. Il Professore è sempre parso sdraiato davanti a Berlino. Ne ha adottato i diktat sull'austerità facendoli pagare ai cittadini in cambio di una personale patente di credibilità. Il premio Nobel per l'economia, Paul Krugman, infatti punge: «Monti era a tutti gli effetti il proconsole installato dalla Germania per far applicare l'austerità fiscale a un'economia già debole». E gli italiani lo hanno punito.
Ultimo sbaglio: se stesso. Accecato dall'ambizione, Monti ha deciso di scendere-salire in politica, snaturando il suo punto di forza.

Avesse dato retta a Napolitano, che gli aveva sconsigliato di buttarsi nella mischia, Monti avrebbe potuto restare super partes. Certo, senza una legittimità popolare; ma sarebbe rimasto un tecnico meta-partitico. Invece ha peccato di superbia, sperando di sbaragliare i due poli. Da super partes s'è fatto partes. Minus partes.

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