La montagna maledetta colpisce ancora e fa strage di alpinisti. Ieri sul Gran Zebrù 6 vittime, tre la mattina, altrettante a distanza di poche ore e di 50 metri, dal 1989 fanno 20 morti. Su quell'asperità del gruppo Ortles Cevedale, alle 8.30 perdono la vita due escursionisti di Parma (Matteo Miari, 22 anni, di Feltre, e Michele Calestani, 43), e il 45enne novarese Daniele Andorno, padre da gennaio e abile alpinista. Partono alle 4 dal rifugio Pizzini in val Cedec, sopra Santa Caterina Valfurva. Procedono legati, il ghiaccio cede a quota 3500 metri, quando ne mancano 350 alla vetta, li fa precipitare per mezzo chilometro.
L'allarme è lanciato da due compagni di escursione che non procedono nella stessa cordata, l'elisoccorso trasporta le salme a Solda. Alle 14 altro allarme, per tre escursionisti altoatesini: i fratelli Matthias e Jan Holzmann, 26 e 30 anni, residenti a Vipiteno e Racines, mentre per rivelare il terzo nome si aspetta di rintracciare i parenti. Il trio fa parte di un altro gruppo, salito dal rifugio Casati (3269 metri), affronta l'ascesa lungo la parete nord. I corpi sono rinvenuti a 50 metri dai primi, nello zaino mancano i documenti e i soccorritori per identificarli devono controllare le auto parcheggiate in zona.
Dal 2000 il panettiere di Solda, Olaf Reinstadler, comanda la stazione di soccorso del paesino e dirige la scuola di alpinismo. «È caldo - spiega -, c'è ancora tanta neve e sciogliendosi diventa instabile, lo si avverte anche camminando. Si parte all'alba per tornare entro mezzogiorno, altrimenti diventa troppo pericoloso».
Reinhold Messner ha conquistato tutti gli Ottomila senza le bombole d'ossigeno, eppure ieri non sarebbe salito. «Con questo caldo non andrei sul Gran Zebrù - spiega -, gli escursionisti esperti dovrebbero saperlo. L'ho scalato venti volte, seguendo vie differenti: anche la normale è molto pericolosa con le temperature elevate, se l'inverno ha portato tanta neve. Penso che in zona sia caduta una valanga di neve bagnata, con il caldo che si registra in questi giorni non si solidifica, ma scivola e allora neanche la piccozza dà sicurezza».
Gran Zebrù significa «cima del re», si rifà alla leggenda medievale del sovrano Johannes Zebrusius, nel XII secolo era feudatario della Gera d'Adda, oggi provincia di Bergamo. La montagna è una piramide con spigoli dall'inclinazione ardita, che superano anche i 45 gradi. Dopo l'Ortles, è la seconda vetta del Trentino Alto Adige, il confine con la Lombardia passa esattamente per questa cima. Il 24 luglio 1989 vide la morte di 4 italiani che scalavano la parete nord, da Solda. Il 15 maggio '94 tre escursionisti tedeschi furono travolti da un lastrone di neve e ghiaccio vicino al rifugio città di Milano, mentre il 5 agosto del '97 caddero in 7: tre vigili del fuoco e un amico residenti a Reggio Emilia, poi la guida alpina della Val Venosta, precipitata assieme a due giovani tedesche, dopo che aveva fatto scattare i soccorsi, capeggiati all'epoca da un prete, don Josef Hurton.
«Anche allora - ricorda Messner -, faceva molto caldo, durante la notte la neve non si ghiacciava». In Italia ogni anno gli incidenti in montagna coinvolgono migliaia di persone, nel 2011 le vittime furono 500, più 1670 feriti gravi. E quel Gran Zebrù è fra le alture più infide.
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