
I principali errori nella gestione della pandemia sono stati fatti nella comunicazione istituzionale. È quanto emerge dai verbali dell’audizione desecretata dell’ex membro della task force e del Cts Giovanni Rezza, già durissimo contro il governo di Giuseppe Conte e Roberto Speranza in materia di vaccini, piano pandemico e lockdown.
Quando si trattò di valutare la preparedness italiana con delle autovalutazioni annuali fu lui a bocciare in toto la comunicazione, come ricorda lo scienziato a una domanda del parlamentare Fdi Guido Quintino Liris: «Ho fatto una valutazione realistica di quella che era la situazione. Per esempio, non potevo dare livello 5 alla comunicazione (avrò dato livello 1 o 2, non ricordo, forse poteva essere ancora più basso), perché avete visto cos’è stata la comunicazione istituzionale e non durante la pandemia. Sarei disonesto dal punto di vista intellettuale se dicessi che entrambe hanno funzionato. Credo che non abbiano funzionato né la comunicazione istituzionale, né quella non istituzionale, cioè quella dei talk show e via dicendo».
Anche quotidiani e trasmissioni sono rimaste loro malgrado vittima di una mole di informazioni incontrollate che si sono riversate sugli italiani: «Per comunicazione non istituzionale intendo non solo quella dei giornalisti, ma anche quella di qualsiasi collega che vada in televisione - precisa Rezza - ne abbiamo visti molti e l’infondemia (l’eccesso di informazioni, ndr) è nata un po’ anche da quello, cioè dal fatto di chiamare sempre più esperti, perché i programmi si moltiplicavano, la domanda di informazione era molto ampia e abbiamo visto come spesso fossero anche in contraddizione fra di loro, se non fino ad arrivare addirittura ad una competizione tra l'uno e l’altro».
Sul banco degli imputati Rezza mette anche molti suoi colleghi che lui stesso definisce «esperti del “dopo”»: «Credo si siano date sempre troppe certezze e ciò che è stato più difficile è stato comunicare l’incertezza. Quando si comunicano le cose con certezza, in primo luogo si rischia di essere sempre smentiti il giorno dopo; in secondo luogo, c’è il tema di entrare anche in polemica. Ad esempio - continua Rezza - ho evitato quasi sempre e, quando mi è capitato, ho cercato una pacificazione, perfino con chi aveva posizioni No Vax. Quando si è trattato di fare quella sorta di sanatoria, rispetto al passato, mi sono espresso favorevolmente, perché ho detto che la battaglia del Covid è stata vinta e quindi basta: perché continuare ad accanirsi? Credo, quindi, che cercare la mediazione ed esprimere anche l’incertezza sia molto importante per le istituzioni e per tutti noi che svolgiamo un lavoro di tipo scientifico».
E qui si torna alla credibilità delle istituzioni durante la pandemia, che sui vaccini hanno detto tutto e il loro contrario, alimentando la narrazione No Vax. «Se la comunicazione è stata fallace bisognerebbe chiedersi se esisteva un piano di comunicazione del rischio a cui il piano pandemico del 2006 dava molta importanza», ha fatto notare a Rezza il presidente della commissione d’inchiesta Covid Marco Lisei (FdI): «Nel febbraio 2020 - risponde Rezza - sulla comunicazione, se c’era una volontà di non allarmare, evidentemente questo poteva essere stato un piano interno al ministero, il ministro del resto aveva un ufficio stampa, un portavoce e via dicendo: probabilmente avranno discusso loro le modalità della comunicazione», ha sottolineato Rezza nella sua relazione desecretata nelle scorse ore.
All’ingranaggio che non ha funzionato si aggiunge quindi la sabbia di un piano di comunicazione del rischio messo a punto non da esperti di sanità pubblica, ma guidato sostanzialmente dalle improvvisate iniziative dell’ufficio stampa politico del ministro Speranza, che non a caso a settembre del 2020 se n’era uscito con il libro dallo sciagurato titolo pseudoprofetico "Perché guariremo, ritirato dagli scaffali allo scoppio della seconda ondata.
La mancata preparazione dell’Italia, tanto strombazzata, si ricava anche da un’altra serie di anomalie. Come fa notare a Rezza Lisei, il 21 febbraio, secondo il verbale, il Cts «ritiene di suggerire l’adozione di tutta una serie di misure di contenimento e di controllo aggiuntive a quelle attualmente in essere, che tengano conto anche del rapido mutamento delle informazioni scientifiche disponibili e si suggerisce l’adozione di un’ordinanza del ministero della Salute che preveda una serie di misure». Quali? «La quarantena di chi ha avuto contatti stretti con positivi negli ultimi quattordici giorni; l’isolamento domiciliare fiduciario per chi torna da aree a rischio della Cina; un ruolo attivo nella gestione della sorveglianza da parte dei dipartimenti di Protezione civile e delle Asl del territorio; la chiusura delle scuole». Invece, come ricorda ancora Lisei, lo stesso 21 febbraio «il presidente Conte dichiarava: “La situazione è sotto controllo, noi eravamo preparati e abbiamo predisposto un piano e lo stiamo attuando”. Pochi giorni dopo, il 23 se non sbaglio, ribadiva “l’Italia è un Paese sicuro, in cui si può viaggiare e fare del turismo”. Le voglio chiedere se, quando lei parla di comunicazione istituzionale che trasmetta più incertezza - queste sono le parole che ha adottato prima - si riferisce al fatto che la comunicazione istituzionale non debba dare per assolute delle fattispecie, come in questo caso, che poi possono essere smentite dai fatti».
E Rezza risponde con l’ennesimo atto d’accusa verso l’ex premier: «Sembra una domanda retorica, nel senso che è chiaro che il 21 febbraio è dopo il primo caso autoctono, se non sbaglio. Quindi, dopo il primo caso autoctono, certamente è bene essere prudenti». E il premier certo non lo è stato.