Politica

Il super giudice americano bacchetta le toghe militanti

G uai ai giudici moralisti. A quelli che vogliono cambiare il mondo. E ai loro colleghi malati di attivismo giudiziario. Viva i giudici che fanno che solo e soltanto i giudici. Low profile. Ironia. Pragmatismo. Antonin Scalia è quasi un monumento nazionale a stelle e strisce. Siede fra i nove membri della Corte suprema americana e di quel consesso prestigiosissimo è anche il veterano perché a nominarlo fu Ronald Reagan nell'ormai lontano 1986. Forse proprio per questo il settantasettenne magistrato, figlio di immigrati siciliani, lancia messaggi in controtendenza, almeno per noi italiani. Da noi c'è stata Mani pulite e poi De Magistris e poi ancora Ingroia e ci sono i pm che pensano di potere spazzare via tutta la cesta delle mele marce, insomma non si limitano a perseguire i reati. No, combattono direttamente i fenomeni, dalla corruzione alla criminalità organizzata. Si allargano, fanno politica, interpretano con sentenze creative il volere del popolo, aprono la strada al legislatore, staccano il respiratore che teneva in vita Eluana Englaro, spostano la frontiera dei diritti dei gay, insomma recitano molte parti in commedia.
Lui, il giudice supremo, li preferirebbe in altro modo: giudici giudici e stop. Lo dice senza giri di parole Scalia, in due interviste concesse alla Stampa e al Corriere della sera in occasione di un suo viaggio in Italia, a Torino, dove è stato invitato dall'Istituto Bruno Leoni.
L'approccio è antigiustizialista fin dalle fondamenta: «L'attivismo giudiziario è un abuso di potere e distrugge la pretesa dei magistrati di essere il legittimo arbitro finale del significato delle leggi». Si può naturalmente non essere d'accordo, ma è bene che si sappia che cosa pensa una delle personalità più conosciute d'America. Da noi, sia detto senza malizia, un po' di attivismo è la base di carriere strepitose dentro la magistratura e poi anche fuori. Da noi i Pm, e talvolta non solo loro, superano i già labili confini della professione e si avventurano in territori che apparterrebbero o dovrebbero appartenere alla politica, alla morale, a tante altre discipline. Certo, la magistratura ha sempre replicato alle critiche spiegando che la supplenza, perché di questo si tratta, è stata dettata dalle innumerevoli emergenze del Paese: la mafia, il terrorismo, Tangentopoli. Ma questa risposta, parziale, copre come può coprire un cerotto un problema assai grave: la perdita di credibilità che inevitabilmente accompagna i giudici sceriffi, i giudici con un piede nelle contese della politica, i giudici sociologi e tutti gli altri centauri venuti al mondo in questi anni.
Scalia, considerato a Washington il capofila dei conservatori, vorrebbe un bel passo indietro da parte de suoi colleghi: «Non tocca certo a noi - spiega per esempio a proposito dei gay - decidere se una condotta omosessuale sia morale o no... Se si vogliono cambiare le leggi, lo si faccia con gli strumenti della democrazia. Il giudice si limiti al suo ruolo».
Un ruolo che sta stretto, come una camicia di forza, a certi magistrati tricolori abituati a navigare sotto la luce abbagliante dei riflettori, e poi pronti a tenere un comizio e a firmare un appello. E ancora impegnati un giorno sì e l'altro pure a polemizzare con il Parlamento, a stracciarsi le vesti ad ogni minima modifica legislativa che solo li sfiori e, nel caso la norma sia varata, rapidissimi a spedirla davanti al gran falò della Corte costituzionale.

La lezione di Scalia va in tutt'altra direzione: «Le corti non devono parlare di moralità: che ne sanno?».

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