RomaIn teoria, per il diritto italiano ogni persona è innocente fino a condanna definitiva. In pratica, molte persone sono colpevoli fino a prova contraria. Nel senso che trascorrono il loro tempo in carcere pur non essendo condannati. Secondo il IX Rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione redatto dall'Osservatorio di Antigone delle 66.685 persone detenute al 31 ottobre 2012 ben 26.804, il 40,1 per cento, non scontava una condanna definitiva ma era in custodia cautelare. Un dato sconvolgente, che ci fa arrossire se confrontato col 23,7 per cento della Francia, col 15,3 della Germania, col 19,3 della Spagna, col 15,3 dell'Inghilterra, col 28,5 per cento della media dei Paesi del Consiglio d'Europa. E che ci è valso anche una bacchettata da Thomas Hammarberg, commissario dei Diritti Umani del Consiglio d'Europa, che ha invitato il nostro Paese a porre un freno alla custodia cautelare detentiva.
Già, perché la custodia cautelare è uno strumento di emergenza trasformato in una sorta di anticipazione della pena. Decine di migliaia di inquisiti si trovano a vivere l'attesa della sentenza definitiva in carcere in condizioni incivili. Un abuso che i radicali vogliono cancellare con uno dei 12 referendum su cui stanno raccogliendo le firme e sui quali gli italiani potrebbero essere chiamati a esprimersi tra qualche mese.
In realtà la custodia cautelare, un tempo meno ipocritamente definita carcerazione preventiva, un suo scopo ce l'ha. Impedire che una persona la cui colpevolezza è ancora da dimostrare ma su cui gravino fondati sospetti che abbia commesso un reato grave possa reiterare il suo comportamento, fuggire o inquinare le indagini. Motivazioni forti e di indubbio interesse sociale. Peccato che negli ultimi anni però i magistrati non abbiano sempre badato a verificare con rigore il ricorrere di queste circostanze prima di rinchiudere un presunto innocente dietro le sbarre. Con il doppio risultato di violare il principio costituzionale della presunzione di innocenza e di aggravare il già drammatico sovraffollamento delle carceri italiane. Che senso ha, infatti, invocare periodicamente amnistie, indulto o altre misure «svuotacarceri» quando quattro detenuti su dieci in linea di principio dietro le sbarre non dovrebbero starci (o almeno non ancora)?
Di abuso di custodia cautelare si iniziò a parlare all'epoca di Tangentopoli, venti anni fa, quando si levò l'accusa di un uso disinvolto da parte del pool mani pulite della carcerazione preventiva come strumento di spettacolarizzazione dell'inchiesta e di pressione su persone che in genere non avevano né il fisico né l'attitudine psicologica a sopportare la privazione della libertà. Anni dopo Italo Ghitti, a quell'epoca gip della Procura di Milano, in un'intervista televisiva avrebbe ammesso che nel bienno di fuoco 1992-93 spesso accoglieva senza battere ciglio le richieste forcaiole della Procura della Repubblica, non avendo il tempo di vagliare tutte le posizioni.
Di «vero scandalo del nostro Paese» scrisse qualche mese fa sul nostro giornale Bartolomeo Romano, ordinario di diritto penale all'Università di Palermo e componente del Csm, che ammise di essersi aspettato una parola forte sul tema da parte del gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali creato dal presidente della Repubblica: «Il pensiero che moltissime persone sono assolte dopo lunghissimi (e ingiusti) periodi di custodia cautelare, che rovinano loro per sempre la vita, e peraltro costano alla società somme ingenti, è - per me - prevalente». Come non essere d'accordo?
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