Le uccisero i due figli poliziotti ora è mamma di tutti gli agenti

Al maresciallo Enrico Frassanito morto dopo 10 giorni di agonia, ultima vittima dell'attacco terroristico di Nassiriya, l'Arma dei carabinieri ha dedicato un mausoleo che ha la forma di un altare, la tomba più grande baciata dall'anemico sole d'inverno nel cimitero di Chievo. Massimiliano e Davide Turazza invece riposano 22 gradini più in basso, nei sotterranei, dove regna un buio che non pare davvero un acconto della luce perpetua. La loro madre accarezza il marmo gelido delle due cellette che ne custodiscono le ceneri: «Le mogli hanno lasciato decidere a me e io ho preferito cremarli, purché rimanessero per sempre vicini». Sulla prima lapide è scolpito «Rudy», diminutivo di Rodolfo, il secondo nome di battesimo, «è così che lo chiamavamo in famiglia», niente cognome, niente foto, «un desiderio della sua Antonella, erano sposati solo da un paio d'anni». Sulla seconda lapide ci sono ancora i disegni, i messaggi e i cuoricini di Nicol e Lara, le figlie di Davide, 10 e 5 anni all'epoca della tragedia.
Per Maria Teresa Salaorni è un altro Natale di mestizia. Aveva solo questi due figli e ha dovuto regalarli entrambi alla patria. Il primogenito il 19 ottobre 1994, a 29 anni. Il secondogenito il 21 febbraio 2005, a 37 anni. Anche Massimiliano e Davide sono caduti nell'adempimento del loro dovere. Erano poliziotti e hanno avuto il solo torto di farsi uccidere in una guerra che non si combatteva in Irak, bensì nelle strade di Verona, la città che li aveva visti bambini.
Toccò a me, nel gennaio 1995, rivelare a questa povera donna, dalla prima pagina del Corriere della Sera, gli sconcertanti benefici di cui godeva il bandito che aveva sparato quattro colpi nella schiena del suo Rudy. Uno scoop che colse di sorpresa persino Guido Papalia, procuratore capo della Repubblica. Alceo Bartalucci, l'assassino, era un pentito. In gergo «collaboratore di giustizia», e viene da chiedersi di quale giustizia. Quello stesso Stato che stipendiava Turazza con poco più di 1 milione di lire al mese gli aveva concesso domicilio protetto, nuova identità, documenti di copertura, vitalizio. Abitava a Villa Tosca, sulle colline di Bardolino, una dimora hollywoodiana con vista sul lago di Garda, dotata di piscina e circondata da un giardino fiorito. Intanto continuava a compiere rapine. Ne aveva già messe a segno 19 sotto il naso dei carabinieri incaricati di sorvegliarlo: il poliziotto veronese fu ucciso mentre sventava la ventesima. Nel garage della magione, appartenuta in precedenza a miliardari olandesi, un parco auto da principe saudita: una Ferrari, una Mercedes 500 SL, una Porsche, un fuoristrada Opel Frontera super accessoriato. Bartalucci, oggi all'ergastolo, usava la rossa di Maranello per recarsi nell'aula bunker di Mestre a deporre nel maxiprocesso contro il suo ex sodale Felice Maniero, boss della malavita del Brenta.
A Davide, l'altro figlio, fu almeno concessa la possibilità di difendersi. Cadde insieme al collega Giuseppe Cimarrusti, 26 anni, in un conflitto a fuoco con Andrea Arrigoni, investigatore privato di Osio Sotto (Bergamo), sospettato d'essere un serial killer, che aveva appena ucciso Galyna Shafranek, prostituta ucraina di 29 anni. Pare che in passato ne avesse trucidato un'altra, Fatmira Giegji, albanese di 26. «Arrigoni fu trovato con 16 pallottole in corpo. Vidi mio figlio nudo sul tavolo dell'obitorio. Un cerottino di mezzo centimetro all'altezza del cuore copriva l'unico foro di entrata. Cercai di sollevare il cadavere, per vedere in quale altro punto fosse stato colpito, ma non ci riuscii: era già troppo rigido».
Lì nella cella mortuaria, china sul suo Davide, la sentirono sussurrargli più volte: «Non sei solo, va' da tuo fratello», e intanto gli accarezzava la fronte gelida. Lei invece non ha più nessuno al mondo. Al marito Ernesto, detto Ermes, fu risparmiato lo strazio di dover seppellire i propri figli: se n'è andato da un quarto di secolo. «L'ultima a lasciarmi è stata mia madre Angela. Aveva 101 anni e 9 mesi. Rantolava sul letto di morte. Allora mi sono ricordata che Rudy e Davide da piccoli giocavano con il trenino e mi sono inventata lì per lì che erano arrivati in stazione per venire a prenderla. Le sussurravo: ecco, scendono dal taxi, entrano nell'ascensore, stanno salendo, percorrono il corridoio, ora sono qui, li vedi? Ti abbracciano. Il suo respiro s'è fatto normale. “È andata”, mi ha detto il medico. Lo so, gli ho risposto».
Da quando le sono stati strappati, i due figli comunicano con mamma Maria Teresa in forme inaspettate: «La sera, su questo divano... Con la televisione accesa, perché altrimenti il silenzio mi farebbe impazzire. Non guardo, non ascolto. Però avverto una presenza. Vera, forte. Non mi va di parlarne». Oppure si materializzano sotto altre sembianze: «Un anno dopo che Rudy era stato ucciso, venne un ragazzo nel mio negozio di abbigliamento. Comprò una robetta, forse una maglia, e uscì. La sera dopo tornò. La sera dopo stessa scena. Finché, alla quarta volta, bisbigliò: “Signora, devo dirle una cosa”. Aprì il portafoglio, tirò fuori una foto di mio figlio. “Da poliziotto mi ha salvato la vita. Ero tossicodipendente da otto anni. Mi ha dedicato tanto tempo. Ne sono uscito grazie a lui. Volevo ringraziarla”. Si chiama Marco, oggi fa il muratore. Non si droga più».
Com'erano i suoi figli da bambini?
«Belli. Gioiosi e vivacissimi. Ma non mi hanno mai dato problemi. Anzi, un giorno le maestre dell'asilo mi dissero: “Succede un fatto strano. Quando due o più bambini litigano, Massimiliano, invece di partecipare alla zuffa, corre a dividerli, difende i più deboli e poi fa la predica ai cattivi”. E infatti si fece uccidere disarmato, davanti a casa, di ritorno dal turno in questura, per fermare un tipo sospetto. Era un complice di Bartalucci che reggeva il borsone con le armi per l'assalto a un furgone portavalori».
Un senso innato della giustizia.
«Ereditato da mio padre, combattente in Etiopia, Jugoslavia e Russia. Tornò a piedi dal Don con i talloni congelati dopo quattro anni di prigionia in 11 campi di concentramento diversi: pesava 36 chili. D'estate portava in vacanza Rudy e Davide a Cervia. Ha insegnato loro i valori della vita, la lealtà, l'amor di patria».
Perché si arruolarono in polizia?
«Sei mesi prima di compiere i 18 anni, Rudy aveva già presentato domanda per l'ammissione nella Folgore. Alla fine della leva, fu scelto con altri 12 per entrare nei lagunari. Mio marito si oppose. Una mattina Rudy partì per Roma: “Di' a papà che sono in gita”. Invece andò al concorso per diventare poliziotto. Davide era magazziniere da Otello, un grossista di merceria. Quando Rudy fu assassinato, giurò: “Guiderò io la volante di mio fratello”. La moglie non voleva. Ma a lui sembrava un atto dovuto. Approfittò della corsia preferenziale riservata ai familiari dei caduti in servizio e fu accettato nella scuola di polizia. Un anno e mezzo dopo era anche lui al 113».
Lei non cercò di dissuaderlo?
«E come? Certo, avrei potuto dirgli: non voglio che ammazzino anche te! Erano i miei figli, ma non sono mai stati di mia proprietà. Non li ho mai contrastati, non sono mai andata contro il loro volere. Li ho sempre lasciati liberi di respirare».
Chi le comunicò che Rudy era stato assassinato?
«Quella notte informarono solo Davide. Io lo seppi alle 6.30 da tre poliziotti in borghese. L'ispettrice Giovanna Caturano era più spaventata di me: “Teresa, tuo figlio ha avuto un incidente”. È stata brava. Se m'avesse detto subito che era morto, sarei morta anch'io in quell'istante».
E di Davide come seppe?
«Non ricordo chi sia venuto qui a casa. Deve scusarmi... Dopo che mi hanno portato via anche il secondo, ho perso completamente la memoria per cinque anni e mezzo. La frase fu: “Devi venire per Davide”. Pensai: ecco, ci siamo! Il mio presentimento s'era avverato».
Quale presentimento?
«Alla messa di Natale in questura, due mesi prima di morire, Giovanna Caturano insisteva perché mio figlio lasciasse la squadra mobile e accettasse di lavorare in ufficio. Davide mi abbracciò: “Dai, mamma, coraggio! Sto al 113 ancora un po' e dopo smetto”. L'antivigilia dell'agguato venne a trovarmi all'improvviso. Non era da lui, di solito avvertiva. Mi parlò dei muri da ridipingere, dei mobili da cambiare, degli inviti per la prima comunione della figlia Nicol. Poi passò a trovare un'amica della moglie che aveva da poco ricevuto un cuore nuovo, e si congedò con un abbraccio così forte che il marito dovette rimproverarlo: “Oh, piano! Altrimenti devono farle un altro trapianto”. Ora so che fu il suo modo di sistemare tutto, di salutare per l'ultima volta i suoi cari, la sua casa».
È crudele chiederglielo, ma c'è qualche diversità nel dolore che si prova perdendo un secondo figlio?
«È uguale, è uguale. Non più forte: uguale. Ma poi diventa un dolore inconsolabile, perché non ti resta più nessuno cui aggrapparti, non hai più niente. Allora ti attacchi a strani riti. Per quattro anni sono andata di corsa. Correvo sempre, senza meta. Correvo incontro a chiunque. Mi ha spiegato lo psicologo che era una richiesta di aiuto inconscia».
Plausibile.
«I primi sei mesi andavo tutti i giorni in cimitero a portare i fiori freschi, ma, siccome trovavo già quelli delle mogli, per non offenderle distribuivo i miei sulle altre tombe, scelte a caso fra le più spoglie. Finché un signore mi ha chiesto: “Lo conosceva?”. Il defunto sepolto lì, intendeva. E quando gli ho risposto di no, che non sapevo chi fosse, mi ha redarguita: “Non si fa, non deve portare i fiori agli sconosciuti”».
Che divieto balzano.
«Allora ho cominciato a passare tutti i giorni davanti alla questura. L'ho fatto fino all'anno scorso. Attraversavo due ponti per arrivarci. Quando un collega di Rudy o di Davide mi notava, pretendeva che entrassi. Sono diventata la mamma di tutti i poliziotti. Davo del tu a chiunque e pretendevo altrettanto, fino a supplicarli se si ostinavano a rivolgersi a me con il lei. Non c'era commemorazione o cerimonia ufficiale della polizia, a Verona, a Roma, in giro per l'Italia, alla quale non fossi invitata. Anche adesso, a dire il vero. Solo che per parecchio tempo ho sentito il bisogno di scattare in continuazione fotografie. Un attimo prima che il ministro prendesse la parola, mi alzavo, andavo vicino al palco e, zac, un flash. Per ricordo. Mi dispiace tanto. Avranno pensato che sono una matta».
Non credo, non credo proprio.
«Poi lo psicologo mi ha consigliato di smettere. E ho smesso».
Ha mai pensato al suicidio?
«Non me la faccia questa domanda».
Se l'è mai presa con Dio?
«Mai, mai, mai. È stata la mia unica forza fin dall'inizio, prima, durante, dopo».
Che cosa prova quando vede i poliziotti aggrediti e sputacchiati per strada durante i cortei?
«Aaah, mi fa tanto male! Una divisa non si può offendere, né con le parole né con i gesti. A chi ci rivolgeremmo, nel momento del bisogno, se non vi fossero uomini che indossano una divisa?».
È sicura che questo Stato meritasse il sacrificio dei suoi due figli?
«I miei figli sono morti per onorare la loro divisa, per tener fede agli insegnamenti del nonno, del papà e della mamma. Ma il loro sacrificio rischia di essere dimenticato, perché, come mi scrisse Enzo Biagi dopo la morte di Davide, la memoria è un peso che molti italiani non vogliono portare. Per questo ho accettato di parlare con lei. M'illudo che possa servire a mantenere acceso il lumicino della memoria. Nella sua lettera Biagi mi citò la frase che un poeta livornese, Giosuè Borsi, pronunciò nel 1915 partendo per il fronte della Grande guerra: “Vado a combattere per un'Italia più buona”. La mia vita è stata spenta, insieme con quella dei miei figli, dalla malvagità. Tutto ciò che avevo l'ho dato perché l'Italia potesse essere migliore. Più buona di quello che è».
Lei è sicuramente buona, so che ha perdonato gli assassini.
«Ma certo, da subito. Li ho perdonati perché non spettava a me condannarli. Erano già comparsi davanti al giudice supremo, avevano già avuto la loro sentenza inappellabile. Poi ho visto in televisione il padre di Arrigoni, una brava persona, affranto: aveva scoperto dai giornali di aver generato un mostro. E allora ho pensato: anche lui e sua moglie hanno perso tutto, però sono più sfortunati di me. Io almeno posso andare per strada a testa alta, ho conservato la mia dignità, serbo nel cuore due figli eroi.

Ma loro? Come possono vivere i genitori di un assassino? Ecco, sento di dovergli esprimere la mia vicinanza. E vorrei anche dirgli di pregare, di pregare tanto. Dio ascolta sempre le invocazioni di un genitore che chiede pietà per un figlio».
(681. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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