Il vecchio leone ieri non ha ruggito. L’altra sera, al termine di una delle giornate più difficili degli ultimi vent’anni, Umberto Bossi aveva dato una zampata: non so nulla, mai usati soldi della Lega per ristrutturare casa mia, denuncerò chi sostiene il contrario. Ieri invece ha taciuto. È arrivato subito dopo pranzo in via Bellerio dove aveva convocato la segreteria politica, si è fermato fino alle cinque e mezzo per conferire con lo stato maggiore del partito (tra gli altri Maroni, Calderoli, Rosi Mauro), poi via senza dire una parola.
Il silenzio di Bossi la dice lunga sul clima di tensione che incombe sul Carroccio. Ai fedelissimi il capo ha confidato di paragonare questa vicenda all’attacco giudiziario più pesante finora ricevuto, cioè l’inchiesta del pm veronese Guido Papalia sulla Guardia padana. Le analogie riscontrate sono numerose. In entrambi i casi la palazzina di via Bellerio è stata perquisita dalla polizia giudiziaria: allora la Digos, oggi carabinieri e finanzieri. Era un anno cruciale per la Lega, il 1996, quello della svolta secessionista e della prima massiccia manifestazione dal Monviso a Venezia. Allora come ora, osserva Bossi, la Lega si era posta in diretto contrasto con gli uomini al potere a Roma. E questa contrapposizione, è ancora il ragionamento del Senatùr, ha richiamato l’attenzione della magistratura più sensibile alle gesta della politica: Papalia aveva allestito una Mani pulite 2 a Verona, Woodcock teorizza una P2 al mese.
Cosa fare, cosa dire quando sei un bersaglio? Il leader leghista ha deciso la strada della trasparenza. La prima mossa è stata far dimettere Francesco Belsito. Nel Carroccio non esiste l’equazione dimissioni uguale rogo. Chi fa un passo indietro non perde la fiducia dei capi. Marco Reguzzoni non ha chiuso la carriera politica quando ha lasciato la poltrona di capogruppo alla Camera. E Roberto Calderoli non si è ritirato a vita privata dopo le dimissioni da ministro delle Riforme per aver mostrato in tv la maglietta con un disegno contro Maometto. Belsito è stato messo da parte (ma non sfiduciato) per svelenire il clima.
Il passo successivo durante la segreteria politica è stato convocare il Consiglio federale per oggi alle 16. È il parlamentino padano, il luogo delle grandi scelte. La decisione di oggi non sarà il passo indietro del Senatùr, come qualcuno ha frettolosamente ipotizzato, ma il nuovo tesoriere. Tempi rapidi per esibire sicurezza e per non slittare a dopo Pasqua. Il prescelto è Bruno Caparini (nel tondo), padre di Davide (deputato) e amico da 30 anni di Umberto Bossi: è suo il castello di Poia presso Ponte di Legno dove il numero uno del Carroccio passa il ferragosto.
La scelta ha richiesto un certo tempo. In ballottaggio c’era anche Silvana Comaroli, deputata di Cremona che è la tesoriera del gruppo a Montecitorio. È prevalsa la linea di evitare un doppio incarico. E il nome di Caparini è un ponte lanciato verso Roberto Maroni, il più irriducibile nel chiedere dimissioni e chiarezza. Caparini senior è un industriale dell’energia, membro del consiglio di sorveglianza di A2A, imprenditore e militante, bresciano della Val Camonica come l’assessore regionale lombardo Monica Rizzi che fu lo sponsor di Renzo Bossi alle elezioni del 2010. È anche il presidente del comitato di soccorso ai creditori di Credieuronord, la banca fallita della Lega. I Caparini negli ultimi mesi hanno criticato certe scelte del Senatùr, Davide in particolare raccolse firme per sostituire Reguzzoni con Giacomo Stucchi. Bossi si arrabbiò parecchio. Ma oggi coinvolgere i maroniani nella «glasnost» leghista significa mandare un segnale di compattezza interna in primo luogo ai militanti stessi, disorientati dal turbine di inchieste partite a gennaio con le indagini su Davide Boni, presidente del consiglio regionale della Lombardia.
Bossi aveva già lasciato via Bellerio quando dal Quirinale è arrivata la dichiarazione del presidente della repubblica che chiede alle Camere una legge sulla trasparenza dei partiti. È esplicito il riferimento alle inchieste su Carroccio e Pd-Margherita. «Ferma restando l’autonomia dei procedimenti giudiziari in corso», Giorgio Napolitano rileva «che sono venuti emergendo casi diversi di notevole gravità relativi alla gestione dei fondi attribuiti dalla legge ai partiti».
Ecco «l’esigenza - cui non possono non essere sensibili nella loro responsabilità le forze politiche - di adeguate iniziative in sede parlamentare volte a sancire per legge regole di democraticità e trasparenza nella vita dei partiti, e meccanismi corretti e misurati di finanziamento». Al Senatùr sono fischiate le orecchie mentre tornava in auto a Gemonio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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