Giovannino Guareschi è lo scrittore italiano in
assoluto più apprezzato e più letto nel mondo: oltre 20 milioni di
copie dei suoi libri sono stati venduti e si continuano a vendere,
tradotti in decine di lingue, mentre i film su Don Camillo e Peppone,
ispirati ai suoi romanzi, continuano a spopolare ovunque. Umorismo,
ilarità, buon gusto, allegria sono le caratteristiche delle opere del
grande scrittore emiliano. Ma la serenità non fu la cifra della sua
vita. Prima vittima di una giustizia ingiusta, Guareschi morì al suo
secondo infarto, nel 1968, all’età di 60 anni, dopo avere superato il
primo nel ’61.
Possiamo dire, oggi,
che quella ingiusta condanna subita, quell’anno e passa di detenzione
trascorso nel carcere di San Francesco del Prato, a Parma, influì in
maniera determinante sulla sua salute?
«Le rispondo con una mia frase: “Ho dovuto fare di tutto per
sopravvivere, tuttavia tutto è accaduto perché mi sono dedicato ad un
preciso programma che si può sintetizzare con uno slogan. Non muoio
neanche se mi ammazzano”».
Lei ebbe una giovinezza molto movimentata, non è così?
«Beh,sì,nel ’36,a 28 anni non ancora compiuti, ero già redattore capo, oltre che vignettista e illustratore, del Bertoldo ,
la rivista satirica di Rizzoli diretta prima da Cesare Zavattini, poi
da Giovanni Mosca. Ma i guai mi arrivarono addosso nel ’42,
quando mi comunicarono la notizia- poiperfortunarivelatasinonvera-
che mio fratello,militare nell’Armir, era morto in Russia. Non ci vidi
più ed esplosi in una serie di insulti nei confronti di Mussolini».
E cosa accadde?
«Che qualcuno tra i presenti corse a riferire alla polizia. Fui
arrestato e condannato a tornare sotto le armi:
artiglieria.Dopol’8settembre,all’ordine di passare al servizio della
Repubblica Sociale Italiana, risposi no.
Nonmisognavoneppuredirinnegare il giuramento di fedeltà al Re ».
Già, è vero, un monarchico come lei...
«È la verità. Quel mio no ai fascisti di Salò lo pagai con due anni di
deportazione nei Lager nazisti, prima in Polonia, poi in Germania. Ne
ricavai Diario clandestino , il mio primo libro di successo».
Al ritorno in Italia, fondò «Candido », sempre con Rizzoli, e diede
inizio ad una durissima campagna per impedire che i comunisti
conquistassero il potere. Indimenticabili e insuperabili le sue
vignette contro i «trinariciuti». A proposito, qual era la funzione
della terza narice?
«Far defluire la
materia cerebrale e fare entrare direttamente nel cervello le
direttive del partito. Devo dire che non fu una battaglia persa. Molti
storici hanno attribuito a Candido e alla sua campagna gran parte del merito della vittoria democristiana alle elezioni del ’48».
Ricordo il favoloso appello lanciato dalla copertina di «Candido »:
«Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no».
«Non fu il solo. Lanciai un manifesto, da me disegnato, con lo
scheletro di un soldato italiano ucciso in
uncampodiprigioniasovieticodallacuiboccauscivanoquesteparole: “Mamma, centomila prigionieri italiani non sono tornati dalla Russia. Votagli contro anche per me”».
Gli anni dal ’48 al ’54, quando scoppiò il «caso De Gasperi», furono quelli di maggior successo, per «Candido».
«Se continuavo a cercarmi dei guai, non era perché fossi ambizioso o
pazzo. Non perché avessi mire “politiche”. Ma perché, rinunciando io a
parlare, avrei tolto la possibilitàdiparlareatutti.
Iniziaiapreoccuparmi dopo la condanna per il “caso De Gasperi”. E
non per me, ma per la libertà e la verità. Motivi di preoccupazione
che, a quanto vedo, non sono ancora venuti meno in Italia ».
Parliamo adesso delle sue vicende giudiziarie.
«Non mi querelò solo il presidente del Consiglio, ma anche il
presidentedellaRepubblica, LuigiEinaudi. Per una vignetta disegnata
da Carletto Manzoni che riportava un’etichetta del vino Nebbiolo
prodotto nelle terre della famiglia Einaudi, con la scritta
“presidente”. Un “conflitto d’interessi”, si direbbe oggi. Al
processo mi presentaiio, inquantodirettore responsabile di Candido ,
e mi affibbiarono 8 mesi di reclusione con la condizionale. Era il 1950».
Quattro anni dopo, la «bomba » De Gasperi...
«Tutto ebbe inizio quando Enrico De Toma, un ex ufficiale della Rsi
cheavevaricevutodaMussolinil’incarico di mettere al sicuro in
Svizzera una copia del suo carteggio riservato,
vendette quei documenti all’editoreRizzoli. Unoscoopcolossale.
Ilsettimanale Oggi , direttodaEdilio Rusconi, iniziò a pubblicare le
carte, ma, dopo solo tre settimane, la pubblicazione fu interrotta senza
dare spiegazione. Volli ficcare il naso in quegli incartamenti.
Scoprii due lettere che De Gasperi aveva inviato da Roma al colonnello
inglese Bonham Carter, a Salerno,
sollecitandoilbombardamentodellaperiferia di Roma per spingere la
popolazione a ribellarsi ai tedeschi ».
E lei decise di pubblicarle. Perché?
«Perché De Gasperi, venendo meno all’impegno preso nel ’48, stava
aprendo ai socialisti di Nenni. Non potevo certo essere d’accordo. Da
qui la mia decisione di pubblicare le due lettere».
Si disse (e la sentenza confermò questa opinione) che i documenti
di quel carteggio erano dei falsi fabbricati durante la Rsi.
«Fui in grado di rendermi facilmente conto che i documenti del carteggio erano autentici».
Il Tribunale di Milano rifiutò la perizia grafica. E lei fu condannato ad un anno di reclusione.
«In tutta quella faccenda tennero contodell’“alibi morale”di De
Gasperi e non ammisero neppure che
iopotessipossedereilmio“alibimorale”. Me lo negarono. Negarono tutta
la mia vita, tutto quello che io avevo fatto nella mia vita. Scriverò:
“Mi avete condannato alla prigione? Vado inprigione”».
Nel quale restò non un anno soltanto, ma ben 409 giorni, perché alla
condanna del processo De Gasperi si aggiunse quella del processo
Einaudi.
«Esatto.Piùaltriseimesidi“libertà vigilata”, ottenuta per “buona
condotta”. Primo e unico giornalista italiano a scontare interamente
in carcere una condanna per diffamazione a mezzo stampa. Lo scopo era
di tappare la bocca a Candido . E il potere giudiziario,ovvero il “terzo
potere”,si prestò.Nel ’61, dopo che ebbi il mio primo infarto, Candido
cessò le pubblicazioni».
class="abody">E il «quarto potere»?
«Ai miei funerali c’erano soltanto due giornalisti: Nino Nutrizio,
direttore de La Notte e mio grande amico, ed Enzo Biagi, emiliano come
me ».
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