Invece io vivo da recluso per sfuggire al presente

Massimiliano Parente si chiude in casa con due mandate. Come Howard Hughes, ma senza i miliardi del magnate

Invece io vivo da recluso per sfuggire al presente
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"Ma perché non esci mai?". Preferisco inventarmi scuse, spiegarlo è troppo complicato. Non viaggio, non mi sposto, non esco di casa, non voglio sapere com'è fatto il mondo e non voglio neanche ricordare com'era. Perché anche quello che era non mi riguarda più. È un altro, quello. Un io morto e il mio modo per tenermi vivo è non uscire mai. Non ho nessuna curiosità che non possa soddisfare a casa e soprattutto ho sviluppato un meccanismo di difesa contro l'esistenza: ridurre al minimo la quantità di presente che riesce a raggiungermi. Il mio appartamento è una camera stagna, una stanza di decompressione tra ciò che ero e ciò che non voglio diventare. Non tengo le finestre chiuse: ci sono le sbarre, e dietro le sbarre si vede il giardino del condominio, il massimo di natura che riesco a sopportare. A parte quella virtuale dentro Call of duty, dove trascorro molto tempo. Chi viaggia lo fa per vivere. Per riempiersi del fuori, per illudersi di esistere muovendosi. Come se bastasse cambiare scenario per cambiare se stessi. Come se l'identità fosse una questione di latitudine. La verità è che ti porti dietro tutto, anche quando credi di lasciarlo a casa. Bisogna essere molto vuoti per sentirsi riempiti dai luoghi. A casa riesco a dimenticarmi, a essere come diceva Andy Warhol, un registratore con un solo tasto con scritto cancella. Ho sempre vissuto nei romanzi che ho scritto, ho inventato mondi per altri e per me stesso, per non ridurmi a vivere. Il mio unico viaggio quotidiano è dal divano dove dormo al mio posto di lavoro, distante tre metri, il tavolo dove scrivo. Davanti a me la libreria, qualche migliaio di libri, quelli che ho deciso di salvare quando ho traslocato, migliaia di mondi, e il computer su cui scrivo adesso. Passo davanti al bagno, alla libreria, alle statue di Batman, al cartonato di Freddie Mercury, alle statue di Alien, e qualche volta mi spingo anche in cucina, che uso solo per fare il caffè con la macchinetta a cialde, una Nespresso. Per il resto ordino sempre cibo da asporto e i rider fanno capolino e restano impressionati dalla mia collezione, dal mio mondo, dalla mia cella. Gli lascio mance sostanziose, perché mi sembra terribile quello che fanno. Meno male ci sono loro. Le sigarette me le faccio comprare dal portiere, il tabaccaio è a cinquanta metri dal cancello, troppi. C'è chi dice che la mia vita da recluso è deprimente, io mi sento come Howard Hughes senza i miliardi di Howard Hughes, di cui però non saprei cosa fare, ho tutto ciò che desidero. Io trovo deprimente il bisogno costante di confermare la propria esistenza facendo qualcosa nel mondo, scattando foto, raccontando aneddoti, dicendo sono stato lì, credendo che per esistere basti visitare luoghi. Meno male che da quando c'è Instagram la gente ha smesso di raccontare i propri viaggi, mette tutto lì, e col cavolo che apro le loro storie, che non raccontano niente, sono l'essere uguali a tutti. Chi mi dice "dovresti uscire, ti farebbe bene", mi sottovaluta e si sopravvaluta. Uscire non mi fa male: mi uccide.

Ho bisogno di ripetizione, di prevedibilità, di un tempo circolare, non lineare: voglio che ogni giornata sia identica alla precedente, così da non accorgermi che sta finendo. Non è una prigione. Sono io che ho messo il mondo in prigione.

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