Come inviato metteva tutti «Kaputt»

Giugno-settembre 1941. Operazione Barbarossa. Hitler sferra l’attacco a Stalin. Al seguito dell’XI armata del generale Eugen Ritter von Schobert ci sono due giornalisti italiani che procedono su una Ford. Uno è Curzio Malaparte, richiamato nel 1940, corrispondente per il Corriere della Sera nonostante figuri alle dipendenze dell’ufficio stampa dello Stato maggiore come ufficiale comandato. L’altro è Lino Pellegrini, sottotenente, non inserito nell’elenco dei corrispondenti di guerra, ma comunque autore di articoli per il Popolo d’Italia.
I reportage di Malaparte, una ventina, ottengono un successo clamoroso, al punto da incrementare le vendite del giornale. Finiranno, ritoccati, in almeno tre libri famosi: Il Volga nasce in Europa, La pelle e nel capolavoro Kaputt. L’odissea al fronte finisce ai primi di agosto, il 7 Malaparte è in albergo a Bucarest. Le ultime corrispondenze sono del mese successivo. Nel frattempo il giornalista è già rientrato in Italia.
Finita l’avventura, inizia la leggenda. Secondo i detrattori, ad esempio Bruno Fallaci interrogato nel 1944 dagli Alleati, Malaparte non si è mai mosso dalla capitale della Romania. I suoi pezzi sono letteratura. Di recente è saltata fuori l’intercettazione di una telefonata del direttore del Corriere della Sera Borelli, uno sfogo contro Vergani e Malaparte: «Mandano le corrispondenze dal fronte, mentre uno (Vergani, ndr) va a passeggio per Roma e l’altro (Malaparte, ndr) si fa vedere a Capri». È il 26 settembre 1941, stesso giorno dell’uscita dell’ultimo servizio «dal fronte» di Malaparte, in realtà sull’isola.
Curzio ha offerto una versione quasi drammatica dei suoi ultimi giorni come corrispondente, seguendo la quale la lamentela di Borelli si dovrebbe riferire solo all’ultimo articolo della serie. Dopo aver fatto tappa a Bucarest in agosto il cronista sarebbe ripartito da solo per Petscianka al fine di recuperare il manoscritto di Kaputt. Poi sarebbe stato arrestato dai tedeschi e costretto a non scrivere più. A quel punto, sarebbe tornato in Italia. Come ha scritto Giordano Bruno Guerri, biografo di Curzio, la verità sta nel mezzo. La persecuzione nazista è esagerata (il giornalista rientrerà per i postumi di un malanno) ma non inventata di sana pianta. Infatti documenti del Minculpop datati gennaio 1942 spiegano: «Curzio Malaparte viene considerato da parte germanica come elemento non gradito perché avrebbe assunto negli scritti un atteggiamento contrario al nazional-socialismo». Per questo «si ha intenzione da parte tedesca di non concedere al Malaparte, in alcun caso, il permesso di recarsi al fronte orientale». In un’altra informativa, si sottolinea che i reportage esaltano «l’eroismo» dell’Armata Rossa. Non a caso, tra gli estimatori di quei servizi, c’è Palmiro Togliatti, segretario del Pci. Insomma, Malaparte non era amato dai nazisti, ed è plausibile che lo abbiano infastidito.
Ma torniamo al viaggio sulla scalcagnata Ford guidata da Pellegrini. Avvenne? Non avvenne? E cosa vide in effetti Malaparte, nel primo caso? Un articolo di Fabio Fattore, Curzio Malaparte, corrispondente di guerra (sul numero in uscita di Nuova storia contemporanea) contiene alcune fotografie scattate da Pellegrini che testimoniano alcuni spostamenti e incontri. Malaparte giunge a Jassy, in Romania, ai primi di luglio. Il 28 e 29 giugno la città è stata vittima di un atroce pogrom scatenato dalle autorità rumene: muoiono 14.850 ebrei. L’episodio è al centro di Kaputt. Malaparte racconta di aver cercato, con Pellegrini e l’agente consolare italiano «Sartori», il cadavere di un professore ebreo, e di averlo trovato in mezzo a centinaia in un vagone piombato abbandonato a Podu Iloaiei. Nella vicenda spicca un eroico Lino Pellegrini, fino a quel momento descritto da Malaparte come «un bravo ragazzo, uno stupido fascista», che affronta con coraggio il potente capo della polizia rumena gridando: «Lei è un assassino di ebrei».
Secondo Fattore, il racconto di Malaparte è vero nella sostanza: l’allucinante ricerca ci fu, come testimonia il genero dell’avvocato rumeno, poi identificato in George Altain. Forse Malaparte non fu testimone diretto del fatto. Ma attinse da fonti di prima mano. Idem per la ricostruzione del pogrom. Come abbiamo detto, Malaparte arrivò a Jassy a massacro appena concluso. Il suo articolo seguiva la spiegazione ufficiale, repressione di una sommossa ebraica sostenuta da paracadutisti sovietici. Una menzogna. Eppure nel suo reportage da qualche parte doveva affiorare la verità. Dopo aver letto il Corriere, il 17 luglio 1941, l’autore esce dai gangheri e si lamenta con il collega Costa di stanza a Bucarest perché il pezzo «è stato tagliato barbaramente» e «il titolo è in contrasto col contenuto».
Il 5 luglio parte con Pellegrini con una Ford V8 presa a nolo. Sono inseriti in una colonna motorizzata tedesca ma devono cavarsela da soli. Passano in Ucraina. Pellegrini ricorda un Malaparte coraggioso ma ipocondriaco, non teme i proiettili ma le malattie. La macchina si rovescia, rimangono isolati qualche giorno in un villaggio in una fattoria dove Curzio è entusiasta perché può vedere senza filtri la società comunista. Tornano quindi a Jassy l’8 luglio. Ripartono quattro giorni dopo, deviano per incrociare gli alpini italiani, assistono allo sfondamento della linea Stalin, attraversano campi di battaglia disseminati di cadaveri. Malaparte in apparenza è freddo. Pellegrini racconta però di averlo visto sconvolto di fronte ai cavalli feriti, ai quali «portava fasci d’erba raccolti lì per lì». Inizia a parlare del suo amato cane, lega la sua morte a quella dell’animale... Pellegrini è così colpito dalla reazione da ritrarla in una fotografia. Forse è questo il momento in cui nasce l’idea di Kaputt, in cui ogni sezione è ispirata a una bestia, e in cui una scena memorabile è riservata proprio ai cavalli straziati.
A proposito di Kaputt. Dall’articolo emerge che il titolo di lavorazione era diverso: God shave the king, un gioco di parole, Dio truffa il re e non save cioè salva come nella espressione originale. Un titolo che lascia pensare che la prima stesura, effettuata in Romania, fosse stata scritta «supponendo la vittoria dell’Asse» (Fattore).


Infine: ammettiamo pure che Malaparte lavorasse di sola fantasia, comodamente seduto in poltrona. Farebbe qualche differenza? No, Kaputt resterebbe uno splendido romanzo (troppo a lungo sottostimato) e una testimonianza terribile sulla Vecchia Europa colata a picco da assassini ideologizzati.

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