«Io sono un eroe, non un delinquente come vengo dipinto. Ho contribuito a salvare dalla cementificazione centinaia di opere darte di cui nessuno si sarebbe mai interessato, mi dovrebbero fare senatore a vita». A parlare Pietro Casasanta, 69 anni, uno dei più noti «tombaroli» della capitale, capace di ritrovare nella sua decennale carriera reperti inestamabili come la Triade Capitolina. Casasanta ripercorre 50 anni di storia degli scavi archeologici seduto al banco dei testimoni in un processo carico di implicazioni, soprattutto politiche, quello allex direttrice del J. Paul Getty Museum di Los Angeles Marion True e allormai 90enne ex mercante darte Robert Hecht, accusati di associazione a delinquere finalizzata alla ricettazione e traffico di reperti archeologici rubati; secondo il pm Paolo Ferri, avrebbero consapevolmente comprato ed esposto al celebre museo reperti etruschi e romani trafugati in scavi clandestini, in particolare a Roma e provincia. Il processo, che si sta celebrando davanti alla sesta sezione penale del Tribunale di Roma, procede in parallelo alla trattativa tra il ministero dei Beni Culturali e la fondazione che gestisce il museo californiano per la restituzione allItalia di una settantina di reperti, tra cui lAtleta di Lisippo (statua in bronzo) e la Venere di Morgantina.
La deposizione del tombarolo ormai in pensione era considerata dalla pubblica accusa molto importante per delineare il contesto in cui si sono mossi, in un lungo arco di tempo che va dal secondo dopoguera ai primi anni novanta, ricercatori, mercanti, galleristi, mediatori eccetera. E ne è venuto fuori un quadro di illegalità diffusa. Dopo aver affermato di non aver mai fatto parte «della presunta associazione formata da Hecht, True e altri» ma di essere sempre stato «ai margini di questi grandi traffici», Casasanta ha ammesso però che, «per almeno 50 anni, il nostro è stato un lavoro legale. Per decenni a Roma tutti i negozi e le gallerie hanno esposto marmi romani, vasi etruschi e altri reperti antichi, pur sapendo che non venivano da scavi ufficiali. Anche noi tombaroli avevamo le nostre piccole gallerie; io ne ho posseduta una fino al 1995. Non cera antiquario romano cui non finissero tali reperti. Per anni siamo stati trattati come esperti di arte antichi per poi divenire, il giorno dopo, dei criminali». Casasanta inoltre conferma quella che ormai era una consuetudine dei tombaroli. «È vero ammette anchio, come altri, ho ricomprato dalle case dasta reperti trafugati in scavi clandestini e poi rivenduti; era un modo per legalizzare il reperto e aumentarne il prezzo».
«Per decenni insomma afferma fuori dallaula Stefano Alessandrini, esponente di Italia Nostra, lassociazione che, con lo Stato italiano e la Regione Sicilia si è costituita parte civile in questo processo - è stato possibile saccheggiare impunemente il ricchissimo patrimonio artistico italiano. Ma le leggi, al contrario di quanto ammette Casasanta, cerano e come; solo che chi ne aveva la responsabilità, non le ha mai fatte rispettare, almeno fino a quando lo Stato ha capito che quei reperti erano parte della sua storia». Proprio dopo il rafforzamento, avvenuto ai primi anni 90, del reparto dei carabinieri che si occupava di archeologia, quello che ora si chiama comando di Tutela del Patrimonio Culturale, si ebbero i primi risultati. Nel 1995 i militari misero così le mani su un vero e proprio tesoro, circa 3000 reperti archeologici; li scoprirono nel porto franco di Ginevra, in un magazzino intestato a Giacomo Medici, inizialmente imputato insieme a True e Hecht ma che poi ha scelto la via dell'abbreviato finendo condannato a dieci anni.
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