«Io, direttore italiano a Dresda»

Spicca fra i direttori italiani che più contano all’estero. Italiano? Eppure, a conversazione avviata, noti che la «v» tendono alla «f», la «g» alla «c», le erre sono fortemente gutturali. Perché anni di permanenza in Austria e Germania hanno impresso un sapore teutonico all’italiano di Fabio Luisi, l’artista genovese (1959) che tutto deve ai due Paesi aldilà del Brennero.
Anzitutto alle città di Graz, Lipsia, Vienna e ora Dresda, i centri pronti a cogliere, sviluppare e lanciare un talento mediterraneo che dirige stabilmente l’orchestra più vecchia del mondo, la Staatskapelle Dresden. L’Italia solo a un certo punto s'è accorta di quel direttore esploso altrove. Così, accade stasera alle 20, quando Luisi raggiungerà il podio del Piermarini, alla testa del complesso di Dresda che dirige dal 2007.
Come vive il ritardo dell’invito da parte della Scala?
«In realtà mi hanno invitato più volte, ma l’occasione s’è presentata sempre troppo tardi, ad agenda completa. Ora, però, vi sono dei progetti operistici e sinfonici».
Come è arrivato all’orchestra di Dresda?
«Nel 2002 mi chiesero di dirigere Strauss, quindi un concerto a Salisburgo per la tremenda inondazione che aveva colpito la città. Mi vollero di nuovo nel 2003. Nel 2004 mi offrirono la nomina, e io accettai».
Se dovesse tratteggiare la personalità di questa orchestra?
«È un’orchestra aristocratica, dal suono argenteo e vellutato, mai pesante. Un’orchestra che ancora non s’è piegata alla globalizzazione: i musicisti sono perlopiù tedeschi. Ha 460 anni e ha sempre richiesto musicisti con caratteristiche che rispettassero l'identità dell'orchestra: i professori sono spesso ex studenti dei precedenti musicisti».
Che rapporti ha con l’Italia, un Paese che l’ha scoperta quando già era noto?
«È andata così. Scelsi di andarmene perché ritenevo che l’Austria mi potesse assicurare il tipo di formazione che ricercavo. Poi tutto è nato come una naturale conseguenza. Ora ho un rapporto continuo con Roma, Firenze e Genova».
Come vede l’Italia musicale soprattutto se rapportata alla realtà tedesca?
«L'Italia è percepita come la patria del melodramma, va bene, ma non deve diventare un cliché che adombri il fatto che vi sono compositori e interpreti interessanti. All’estero non si capisce esattamente cosa succede in Italia, un po’ perché l’Italia non divulga cosa sta facendo, manca una efficace comunicazione. Poi perché i complessi italiani sono presenti ancora troppo poco sulla scena internazionale, e il problema è legato anzitutto a una programmazione troppo tardiva che a sua volta deriva dalla mancanza di un piano finanziario di lungo respiro e da un carosello di sovrintendenti».
Perché le orchestre italiane continuano a non reggere il confronto con le eccellenze straniere?
«Anzitutto smentisco lo stereotipo dei musicisti italiani disordinati e poco volenterosi. Forse è una questione di strutture, di un’estrema sindacalizzazione che in alcuni casi rischia di mettere a repentaglio la flessibilità della programmazione».
Mamma sarta e papà ferroviere. Una carriera costruita tutta con le sue mani, dunque.


«Ed è stata dura perché non ho avuto nessuno che mi abbia aiutato. Sono quel che sono grazie al puro lavoro. Però di questo sono molto fiero. Nessuno mi ha introdotto o ha fatto la cosiddetta carriera, perciò sono libero».

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