
Non mi era mai capitato di leggere una autobiografia in cui specchiarmi. Eppure tutto mi dovrebbe dividere da Massimiliano Fuksas. Alla rinfusa: il mestiere, lui è architetto (tra l'altro inserito in una categoria che lui odia e io pure: archistar, come il famoso doppio brodo); idee politiche, le sue sono rosse come il fuoco, è un innamorato sfacciato di Che Guevara, Fidel, Arafat; radici geografiche e ascendenze culturali, il padre è un ebreo lituano, la madre della buona borghesia romana. Ed ecco che il libro È stato un caso (Mondadori) me lo ha rivelato lontano da me in tutto tranne che nel nocciolo esistenziale che ci fa essere quello che siamo sotto la pelle delle relazioni sociali. Parlo di quelle due o tre cose, cioè, che danno un'impronta unica e personale alla esistenza. Non lo scrivo alla leggera, e neppure per collocarmi su un piedistallo alla pari di lui, che è un genio riconosciuto, costellando con sue costruzioni inconfondibili per potenza creativa città come Tokyo, Parigi, Roma, Baghdad e Milano...
Fuksas è consapevole di essere arrivato a un livello di fama riservato a pochi privilegiati, ma ritiene che tutto questo gli sia capitato «per caso». Per una serie di «fortuite combinazioni». In questa visione del destino è tutto meno che marxista, non crede alle strutture economiche che ci fanno essere quello che siamo, non sa dipanare quello che lui chiama «mistero», s'interroga continuamente su quale sia «la vera essenza della realtà». E non riesce a stringerla tra le mani. Fuksas descrive dei momenti in cui balena in lui - dopo aver visitato una città - la forma di un'opera gigantesca e che occuperà anni di lavoro per schiere di giovani architetti e fior di ingegneri, nonché muratori eccetera. Ha questi impeti che nascono anche dalla sua volontà un po' folle di fare qualcosa che superi i limiti dello spazio e del tempo. Eppure in fin dei conti l'unica cosa che gli interessa «è fare del bene agli altri». Mi specchio in questo desiderio pure io, con il mio scribacchiare sin da piccolo. Non l'ho mai espresso, mi parrebbe superbia dirlo, ma mi ci riconosco, anche se mi pare troppo. Mi accontenterei di non fare del male.
Ho parlato di percorsi paralleli, forse comuni a molti della nostra generazione. Nascita in tempo di guerra (lui nel 1944, io nel '43). Orfano di padre durante le scuole elementari. La madre lontana per i guai della vita. La volontà di farsi da solo, senza piagnistei, perché «non ci sono alibi nella vita». La certezza che tanti «cercheranno di osteggiarmi, ma non riusciranno a fermare la mia immaginazione...». L'orrore per la violenza e la prepotenza oggi vittoriose.
Fuksas si stupisce del corso della sua vita. Si ritiene molto fortunato (il ruolo della fortuna, che io chiamo San Culo, è importante), nel contempo «essere bravi in qualcosa è spesso una salvezza». Ancora: una propensione a essere sinceri sino al litigio e poi ritrovarsi di nuovo amici, il lavoro come unica dimensione, e però ricordare alcuni giorni di felice solitudine: «... un piccolo cavallo, con cui faccio lunghe passeggiate per i boschi... Un cane, un gatto, un cavallo: ecco come trascorrevo le mie giornate». La capacità di uscire dagli schemi. E la sua simpatia dichiarata per Roberto Formigoni, «distante dalla mia area politica», ma con cui ha realizzato il progetto stupefacente della nuova Fiera di Milano, nei primi anni del millennio. «Di rado mi è capitato di trovare un ambiente di lavoro così ideale. Alla fine la Fiera è un immenso successo...
oltre un milione di metri quadri, eppure la completiamo in appena ventisei mesi, un record. E dopo vent'anni non ha perso nulla della sua freschezza originaria e della sua forza espressiva». Anche Fuksas a 81 anni è fresco come la sua fiera. Magari valesse per me.