«Io, figlio di partigiani, racconto le loro stragi»

Michele Soavi: «Se mi daranno del revisionista me ne frego, questo è un film utile e necessario»

da Roma

«Vuole sapere come mi accosto alla materia incandescente del Sangue dei vinti? Con lo spirito di un lappone, dello straniero senza idee consolidate o giudizi da rivedere. Se poi mi daranno del revisionista, e mi pare difficile venendo io da una famiglia di ebrei e partigiani, risponderò che francamente me ne frego». Michele Soavi, 49 anni, regista di cinema (Arrivederci Amore, ciao) e soprattutto di fiction ad alto tasso drammatico (da Ultimo a Nassirya), ama le sfide difficili. «Il vespaio mi esalta, mi spinge a dare il meglio. Il tema è delicato, lo so, rischia di urtare molte sensibilità, soprattutto a sinistra, ma penso che sia giusto fare questo film». Primo ciak il 9 luglio, due puntate per un costo attorno agli 8 milioni di euro, producono insieme Alessandro Fracassi e Raifiction. È stato lo stesso Agostino Saccà, qualche giorno fa, a dare la notizia, parlando di «una sceneggiatura bellissima» (la firma Dardano Sacchetti con la collaborazione di Giampaolo Pansa). Bellissima forse, di sicuro tormentata, vista la natura del racconto: le stragi, le rese dei conti, le vendette personali compiute in nome della Resistenza dopo il 25 aprile 1945.
Del resto, per trasformarsi in fiction popolare, la cruda contabilità mortuaria del libro richiedeva una rielaborazione drammaturgica, con l'inserimento di personaggi di fantasia da catapultare dentro alcuni degli episodi rievocati da Pansa: l'impiccagione del federale Solaro a Torino, la fucilazione dei fascisti raccolti nello stadio di Novara, i processi sommari a Cuneo, l'uccisione di un'anziana donna insieme con i suoi conigli. Ecco, allora, questo giovane commissario di polizia, il neanche trentenne Franco Dogliani, che sul finire della guerra, partito da Roma, risale verso la natìa Cherasco, nelle Langhe: testimone attonito, poi sempre più partecipe, fino ad essere inghiottito da quei fatti di sangue.
Dogliani un po' come il capitano Willard di Apocalypse Now?
«Il paragone mi piace. Dogliani viene risucchiato in un orrore spaventoso, cieco, solo che qui non c'è un colonnello Kurtz da eliminare. Sul piano dei riferimenti, penso anche a un certo espressionismo tedesco, a Brecht e Kurt Weill, al crudo film di Ken Loach Il vento che accarezza l'erba, soprattutto ad Antigone di Sofocle: per il tema dolente della giusta sepoltura. Nel documentarmi, scorrendo fotografie, filmati e libri vari, ho scoperto che il colonnello inglese John Melior Stevens concesse cinque giorni ai partigiani piemontesi, a partire dal 25 aprile, per fare pulizia. Solo che quei giorni diventarono settimane, il tritasassi della vendetta macinò a lungo. Ho visto cose atroci, compiute da entrambe le parti: repubblichini e resistenti. Cadaveri esposti per una settimana con cartelli al collo, scritte sui muri vergati col sangue, un clima feroce da crocifissione dei cristiani sull'Appia antica».
Immagino che le avranno chiesto di «contestualizzare» i fatti.
«Sì, e mi sembra ragionevole. Troppo facile fare un film schematico sui buoni che diventano cattivi e viceversa. Giusto, quindi, inserire la vicenda personale di Dogliani in una prospettiva storica che parte dal 19 luglio 1943, giorno del bombardamento alleato sul quartiere San Lorenzo a Roma, per passare con un'ellissi alle settimane di sangue dopo il 25 aprile, con una sorpresa ambientata ai giorni nostri».
Dogliani anziano che rievoca?
«Non posso entrare nei dettagli. Certo questo commissario è un personaggio tormentato, scisso tra fedeltà al potere e pulizia morale, non uno spettatore passivo. I suoi genitori vengono linciati perché in odore di fascismo, la sorella Lucia, più giovane e scalpitante, sente su di sé l'onta dell'8 settembre e diventa un'ausiliaria irriducibile, il fratello Ettore invece raggiunge i partigiani, forse un po' per convenienza. In mezzo c'è lui, Franco, figlio di un carabiniere, toccato dai dubbi: scortando il Duce a Ventotene s'è imbattuto nei confinati antifascisti, apprezzandone le idee; ma altri antifascisti poi daranno via alla mattanza».
A proposito di dubbi: ha esitato prima di accettare?
«No. So che altri colleghi, da Carlei a Zaccaro, da Negrin a Battiato, sono stati interpellati prima di me. Non mi nascondo i rischi. Ma nessuno mi ha imposto niente. Certo si discute, anche animatamente. Pansa è un uomo a tratti forastico, irritabile, bisogna saperlo prendere. Considerata la destinazione, mi è stato chiesto di non esagerare con le scene cruente. Ma Il sangue dei vinti è un film utile e necessario. Meglio questa storia a lungo rimossa che l'ennesima fiction sulla malasanità».
E il cast? È vero che state pensando a una confezione internazionale, da girare in inglese, con attori presi qua e là in Europa?
«Sì, preferirei un cast misto. Vede, ci sono attori italiani che, per motivi ideologici, un film così non lo farebbero. Meglio allora pescare altrove. Il mio sogno è avere Sebastian Koch, il magnifico attore tedesco che fa il drammaturgo spiato in Le vite degli altri, per il ruolo di Dogliani. Vedremo. Io ci spero».
Altri nomi non ne fa, Soavi, ma il tempo stringe.

Alla Rai stanno valutando varie ipotesi: da Raoul Bova a Daniele Liotti, e poi Virna Lisi, Beppe Fiorello, Christo Jivkov... Questione di giorni. E intanto Marco Tullio Giordana sta girando, sempre per la Rai, il suo Sangue pazzo, sulla coppia maledetta Ferida-Valenti, incarnata da Bellucci e Zingaretti. Stesso periodo, stesso sangue.

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