Pierluigi Surace
Che ci fa una giovane donna italiana nel bel mezzo del deserto del Ténéré, per quasi cinquanta giorni, in compagnia di quaranta Tuareg e trecento dromedari?
Difficile anche solo chiederlo a uno dei Madugù, i capi della tradizionale Carovana del Sale, che da centinaia di anni solca le piste invisibili del deserto dei deserti, compiendo un rito riservato ai maschi Tuareg, per i più giovani dei quali si tratta di una vera e propria iniziazione.
Elena Dacome, trentacinquenne veneziana, fotografa, studi di filosofia e antropologia, sette anni di viaggi nei deserti alle spalle (come guida del tour operator veneziano-milanese Kel-12), è stata «adottata» e integrata in questa spedizione grazie all'intercessione del suo amico Ihalan, figlio di uno dei capi carovana, che ha accettato di inserire, contro ogni tradizione, con un ruolo pari a quello degli altri carovanieri, questa giovane donna occidentale, tanto innamorata del deserto e di quelle terre da averne studiato anche la lingua.
A dispetto delle apparenze non è solo passione per i viaggi estremi. La conoscenza di altre popolazioni con differenti culture e i luoghi in cui vivono, con la loro bellezza maestosa e primordiale, sono le molle che la spingono. Un'attenzione che si traduce in appunti di viaggio ispirati e meticolosi, una gran messe di fotografie e filmati che ne sorreggono e amplificano la testimonianza, ma anche nella raccolta di dati per la ricerca antropologica, in collaborazione con l'Università di Ca' Foscari a Venezia.
Mentre scriviamo Elena si trova sulla via del ritorno, in vista dei monti dell'Air, nel Niger nordoccidentale, nell'ultimo tratto di deserto. Obiettivo: Timia, il piccolo villaggio nigeriano da cui sono partiti l'otto ottobre scorso e dove rientreranno fra una settimana. L'unico collegamento possibile è rappresentato da un telefono satellitare, avventurosamente ricaricato per mezzo di una piccola stuoia fotovoltaica da lasciare esposta al sole, sullo zaino, che per la prima volta Elena ha accettato di portare con sé per poter aggiornare, via sms, un «blog» (una sorta di diario) sul suo sito internet www.dacome.it. Ed è attraverso questa linea telefonica che abbiamo potuto parlarle, durante l'ultima sera di sosta al pozzo di Tegarat.
A parte l'inseparabile macchina fotografica, la videocamera e la novità del telefono, Elena porta con sé solo pochi indumenti e il blocco per gli appunti e sembra quasi un'eresia la mancanza di un Gps, localizzatore satellitare, che ormai è a bordo anche delle auto in città. «Ma per carità - dice Elena - già il telefono è uno strappo e un compromesso che ho fatto con me stessa allo scopo di condividere quest'avventura via internet con tutti. Ora, mentre parliamo, mi sento già trascinata fuori dall'atmosfera di questi giorni, come un incantesimo che si rompe. E poi avrei violato e offeso la magia del capo carovana che conduce quest'esercito di uomini e dromedari attraverso il deserto, guidato soltanto dal sole e dalle stelle, con una precisione quasi incomprensibile».
E non facile da capire è anche il motivo che ha indotto Mahmoud, il capo carovana, ad accettare Elena come membro della carovana lungo la tradizionale Via del Sale, violando un tabù storico. Anche se un precedente c'è: «Sì, un'altra donna c'è stata - come ricorda Elena - anche lei italiana, Carla Perrotti, che nel '91, se non sbaglio, si aggregò come ospite a una carovana del sale, sulla via del ritorno (Carla Perrotti è una nota documentarista. In quell'occasione l'accordo con il capo carovana prevedeva che non l'avrebbero aspettata in caso di difficoltà; il marito ed altri amici la seguivano con due fuoristrada per raccoglierla. Ndr). Io ho impiegato un anno a convincere i Tuareg a prendermi con sé e altri sei mesi a prepararmi sotto il profilo fisico e mentale. In ogni caso il sì definitivo l'ho avuto solo quando sono arrivata a Timia, a casa del capo carovana, tre giorni prima della partenza».
Eppure Elena, grazie alla conoscenza della lingua e della loro cultura, è riuscita a inserirsi fra i Tuareg, svolgendo i loro stessi compiti, anche lei carovaniera come gli altri.
«Certo, mi hanno sempre risparmiato i ruoli più gravosi, come andare giù in fondo al pozzo a raccogliere con i secchi migliaia di litri d'acqua per i dromedari. E ormai sono parte di loro e non si preoccupano neppure più di non farsi vedere a volto scoperto, persino quando mangiano: a noi sembrerà strano, ma è un fatto del tutto eccezionale. Uno degli uomini più legati alla tradizione, ieri mi ha detto che di questa mia partecipazione si parlerà a lungo tra le popolazioni Tuareg e nel dirlo i suoi occhi sorridevano».
Ma non si tratta solo di integrazione, c'è anche da fare i conti con la fatica, la capacità di resistere a uno sforzo continuo e minato dalle poche ore riservate al sonno. Quanta fatica? Elena si schermisce: «Forse bisognerebbe chiederlo al dromedario, già stracarico di sale e datteri, quando gli monto in groppa durante la marcia. In realtà, su sedici ore di viaggio quotidiano, la metà si fanno a piedi e la fatica è tale che a volte, marciando accanto al dromedario che mi hanno affidato, gli appoggio una mano sul fianco e chiudo gli occhi, lasciando che sia lui a guidare la direzione del mio cammino, concentrandomi solo sul ritmo dei passi, ipnotizzata dalla loro stessa cadenza. Ma è la bellezza di queste albe o il fuoco dei tramonti - e tralascio il resto - a mondare in un attimo il sonno e la fatica. Attaber, uno dei capi, dice che il deserto insegna la pazienza e regala la forza. Tutta quella che serve a coprire i 50-60 chilometri che percorriamo ogni giorno».
E il pensiero torna alle nostre auto, con o senza Gps, sulle vie veloci e asfaltate di casa nostra. Eppure anche lì, lungo le piste tracciate per congiungere i villaggi attraverso il deserto, non è poi così difficile incontrare dei 4x4. E d'altra parte è naturale, come commenta Elena, visto che è semplicemente possibile. Però, fuori dalle piste, nelle valli che scendono a est dei monti dell'Air e lungo le rotte del deserto, la realtà è un'altra, «immota nei modi degli uomini blu che l'attraversano senz'altro tempo che quello della loro memoria. E questo è un fatto autentico: pensi che durante uno dei primi giorni di viaggio abbiamo incontrato due bimbe che non avevano mai visto un uomo bianco (una donna in questo caso)».
Alla fine, cosa porterà con sé al ritorno in Italia? «Il mio nuovo nome: quando sono arrivata in casa sua, Mahmoud, forse per sancire la mia integrazione con i Tuareg, mi ha ribattezzata, se posso usare questo termine parlando di un musulmano. E siccome sono femmina e bianca, ha deciso di chiamarmi Tellit, che in lingua tamashek vuol dire Luna».
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