«Io, stakanovista del romanzo Sono a quota 66»

da Parigi

Belga, ma cresciuta fra Giappone e Cina, scrittrice di successo, Amélie Nothomb pubblica ora anche in Italia Causa di forza maggiore (Voland, pagg. 144, euro 14, traduzione di Monica Capuani). Personalità entusiasta e generosa, la incontro al premio «Lilas», nella leggendaria Closerie des Lilas di Parigi.
Signora Nothomb, lei è in questa giuria per...
«... Insistenza dell’amica Stéphanie Janicot. Ma poi è stato appassionante: leggere quaranta romanzi mi ha dato il quadro della produzione letteraria femminile. M’ha conquistato la vincitrice, Stéphanie Hochet, con Combat de l’amour et de la faim (ed. Fayard, ndr), molto superiore ai suoi libri precedenti».
Solo donne per premiare una donna...
«Non ero entusiasta della formula, ma mi sbagliavo. Ci sono l’attrice Arielle Dombasle, audace, sottile, senza complessi, dice ciò che pensa e che nessun’altra penserebbe; la critica letteraria Josyane Savigneau, che ammiro follemente; la produttrice Nathalie Rheims, che ha tanto sofferto per la morte del regista Claude Berri, ma non ne fa cenno».
I libri ai quali non rinuncerebbe?
«Rileggo sempre Il ritratto di Dorian Gray, apice di psicologia e scrittura, e i quattro volumi delle Ragazze da marito di Montherlant. La prima volta avevo quattordici anni, apprendistato della femminilità. Il romanzo pare misogino, ma adoro l’onestà di quest’uomo che ha orrore delle donne e lo spiega. Mi dicevo: “Non sarò come loro”. Rifiutavo la femminilità. Con altri fattori, Ragazze ha contribuito a rendermi anoressica».
Altri libri?
«Ho letto La Certosa di Parma sessantaquattro volte: delizia assoluta. E dire che fu dettato in cinquantatré giorni!».
Stendhal l’ha spinta a scrivere?
«No, sono stati altri libri. Specie Il crepuscolo degli idoli di Nietzsche, che m’ha salvato la vita. Al culmine della mia crisi adolescenziale, ho letto la frase: “Alla scuola di guerra della vita, ciò che non mi uccide, mi fortifica”. Che superuomo sarei diventata? La risposta è venuta con le Lettere a un giovane poeta di Rilke. Dopo, ho scritto il primo romanzo, inedito, che tale resterà. Ne ho scritti dieci prima di Igiene dell’assassino e ora scrivo il sessantaseiesimo».
Mediamente lei scrive tre romanzi l’anno e ne pubblica uno. Qual è il suo segreto?
«L’auto-tirannia. Ogni giorno, pioggia o sole, 40 di febbre o lutto in famiglia, scrivo per quattro ore, cominciando al più tardi alle 4 del mattino. Colgo lo stato d’animo che precede l’alba per ritrovare una sorta di purezza mentale. So lavorare ovunque, dopata dal tè extra-strong del Kenya».
Vede tanti film?
«Ho sempre amato il cinema. Arrivata in Europa a diciassette anni, ero molto sola. All’università mi sentivo emarginata. I ragazzi non mi volevano. Spendevo i guadagni da baby-sitter al cinema. Ancor adesso ci vado una volta a settimana».
Di recente che cosa le è piaciuto?
«Harvey Milk e Gran Torino, perché sono una fan di Clint Eastwood. Ma il mio film feticcio, con La donna che visse due volte di Hitchcock, è Exotica di Atom Egoyan: un capolavoro e una lezione di cinema».
Ama l’arte?
«Da qualche anno, Nathalie Rheims m’ha introdotta all’arte contemporanea. Rivolgo un pensiero alla Galleria Polaris di Parigi, appena bruciata. Bernard Utudjian, il migliore dei galleristi, vi ha esposto il mio compatriota Patrick Guns, di cui scrivo in Causa di forza maggiore. Va scoperta anche Agathon, piccola donna violenta e geniale».


E la musica?
«Non so nulla della musica, ma è l’arte che preferisco. Adoro tanto Schubert quanto il metal, che è per me la grande musica odierna. Il complesso Toole è geniale. E la mia passione per Björk e i Radio Head è sempre viva».

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