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Irak, Bush pensa ai rinforzi: deciderò presto

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Se ne avesse avuto bisogno, George Bush avrebbe potuto constatare una volta di più dove finiscono le guerre del passato e dove continuano quelle del presente: aveva avuto applausi, feste e fiori in Vietnam, ha trovato la tensione e il deserto della «security» in Indonesia. Il suo colloquio con il presidente Susilo Bambang Yudhoyono si è svolto a 60 chilometri dalla capitale, nel palazzo di Bogor, sede dell’amministrazione coloniale olandese, sotto un’imponente protezione di 20mila soldati, che hanno tenuto lontano, aiutati dalla pioggia battente, i gruppo di contestatori. Circa 4.000 dimostranti hanno scandito slogan contro il presidente americano e la sua politica in Irak. I più scalmanati, che avevano bandane con la scritta «Us terroristi», gridavano: «Bush cane! Bush cane!». La reazione del capo della Casa Bianca: «La protesta della gente è buon segno, è un segno di salute sociale. L’Indonesia è un esempio di come la democrazia e la modernizzazione possano fornire un’alternativa all’estremismo».
A Giakarta il leader di una delle organizzazioni estremiste musulmane, il Fronte dei difensori dell’Islam, annunciava che «sotto la legge islamica è lecito uccidere George Bush, colpevole di crimini contro l’umanità». Non sono i fondamentalisti a governare l’Indonesia, che pure è il Paese con più musulmani nel mondo: c’è dal 1999 un regime abbastanza democratico, succeduto a una dittatura militare. Bush con Yudhoyono ha esaminato l’ottimo stato dei rapporti bilaterali e ha avuto uno scambio di vedute anche sulla «guerra al terrore», incluso l’Irak; e anche il presidente indonesiano gli ha consigliato di preparare una «tabella di marcia» per il disimpegno delle forze Usa.
Una raccomandazione in linea con le molte che continuano a piovergli dai Paesi alleati (inclusa la Gran Bretagna) ma soprattutto dal mondo politico americano. Che è unanime nel tracciare un bilancio molto critico dei risultati di tre anni di presenza militare a Bagdad, ma non è affatto unanime sul da farsi. Una parte dei democratici, imbaldanziti dopo il successo elettorale del 7 novembre, insiste per ritiro accelerato: fra gli altri il senatore Carl Levin, che da gennaio sarà presidente della commissione senatoriale sulle Forze armate, ha ripetuto ieri che le truppe dovrebbero cominciare a tornare a casa entro sei mesi.
Ma una ricetta completamente opposta viene dal senatore repubblicano John McCain, che ha già annunciato la propria candidatura alla Casa Bianca per il 2008 e che chiede invece che in Irak vengano spediti con urgenza ingenti rinforzi per aiutare «i nostri soldati che sono laggiù e che oggi combattono e muoiono per una politica fallita. Abbiamo bisogno di una presenza militare schiacciante per stabilizzare l’Irak e difenderci da nuovi attacchi. Il ritiro oggi sarebbe una sconfitta molta grave, perché la guerra non finirebbe lì: cambierebbe soltanto teatro e dovremmo ricominciare a batterci dall’inizio. Sarebbe una catastrofe, che fra l’altro porterebbe una grave minaccia allo Stato di Israele.
La Washington Post ha rivelato, intanto, le grandi linee del documento preparato dal Pentagono per tentare di uscire dal pantano iracheno. Il piano prevede tre opzioni: 1) “Go home” (andare a casa); 2) “Go big” (inviare ingenti rinforzi); 3) “Go longer” (restare più a lungo). La prima, quella del ritiro al più presto, è stata scartata in quanto innescherebbe una guerra civile totale. La seconda, scrive ancora il giornale, presenta grandi difficoltà perché non ci sono truppe sufficienti. La terza contempla una riduzione della presenza militare statunitense, presenza che verrebbe però prolungata con un’intensificazione dell’addestramento e del rafforzamento delle truppe irachene.
Stando al quotidiano della capitale, che cita fonti autorevoli del Pentagono, la scelta sarà questa: un lieve aumento dei soldati - tra 20 e 30mila uomini(attualmente ci sono 140mila militari) - per una durata limitata e una permanenza a lungo termine degli istruttori che assisteranno gli effettivi di Bagdad. L’ultima parola spetta a Bush, che a Giakarta ha dichiarato di volere decidere dopo le raccomandazioni che gli giungeranno dalla commissione bilaterale Usa, presieduta dall’ex segretario di Stato James Baker, incaricata dallo stesso presidente di esaminare quali possano essere le vie per un onorevole disimpegno dall’inferno iracheno.

Il responso della commissione è atteso nel prossimo mese.

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