Iran-Pakistan, l’asse dell’atomica Così Al Qaida può avere la bomba

Il nucleare che angoscia. E che fatica. Nessuno lo sa meglio di Barack Obama protagonista, vittima e prigioniero, da domenica sera, della «missione impossibile» in cui s’è infilato invitando a Washington i rappresentanti di 47 Paesi per decidere una politica comune sulla sicurezza nucleare.
Di comune in quel summit ci sono, fin qui, solo gli egoismi e i tornaconti dei vari partecipanti. Quelli dell’enigmatico presidente cinese Hu Juntao pronto, nel faccia a faccia con Obama di lunedì a promettere il via libera a nuove e più rigorose sanzioni contro Teheran, ma altrettanto pronto, ieri, a ridimensionare l’impegno preso. Quello di un Pakistan dove gli arsenali nucleari rischiano di cadere nelle mani di Al Qaida, ma dove nessuno, tanto meno l’imperscrutabile primo ministro Yousaf Raza Gilani, sembra disposto ad affrontare una discussione sul controllo delle testate. E se questi sono i potenziali amici figuriamoci i nemici. L’incubo di una Al Qaida nuclearizzata evocato dal presidente Barack non è né un’ossessione, né una semplice ipotesi di lavoro. Lo scenario è quanto mai concreto sin dal dicembre 2001 quando la Cia scopre in una base afghana la documentazione sugli incontri tra Osama Bin Laden e due scienziati nucleari pakistani. Durante gli appuntamenti svoltisi nei pressi di Kandahar qualche settimana prima dell’11 settembre Sultan Bashiruddin Mahmood e Chaudiri Abdul Majeed, due protagonisti del programma atomico d’Islamabad offrono consulenza per la costruzione di un ordigno nucleare sporco ed esaminano una cassa di «materiale nucleare» già in possesso di Al Qaida. Da allora la Cia non ha mai smesso di ricevere segnalazioni sui tentativi di Bin Laden di mettere le mani sui componenti di una bomba sporca. Obama, ben al corrente di quei tentativi, li definisce «una catastrofe per il mondo capace di causare straordinarie perdite umane e di infliggere un colpo estremamente duro a pace e stabilità globale».
Proprio per questo il presidente chiede ai suoi ospiti di trasformare il summit in «un’occasione per agire e non semplicemente discutere». Quella smaniosa voglia d’azione è un segnale di quanto la minaccia del terrore nucleare agiti la Casa Bianca. Una paura strettamente legata alle convulsioni di un Pakistan dove un governo sempre più debole e una minaccia integralista sempre più invasiva rischiano di disintegrare il Paese. Una paura che il silenzio ostentato e indifferente del premier Yousaf Raza Gilani non contribuisce a sciogliere. Fin qui né lui, né i suoi collaboratori hanno fornito risposta alle richieste di chiarimenti su tre nuovi reattori destinati a garantire la fornitura di materiale nucleare necessario alla costruzione di una nuova generazione di testate. Quel silenzio non è stato scalfito neanche dalle pressioni di Obama, protagonista alla vigilia del vertice di un duro faccia a faccia con Gilani. Un incontro privo di risultati durante il quale il premier pakistano ha ricordato l’impossibilità di qualsiasi passo indietro fino a quando gli Stati Uniti non cancelleranno l’accordo dell’era Bush che garantiva, dopo una lunga moratoria, la ripresa della fornitura di combustibile e tecnologie nucleari al nemico indiano.
Se il nucleare pakistano conduce ad un labirinto senza possibili vie d’uscita l’idea di un accordo con la Cina per bloccare quello pakistano sembra ancora più tortuosa. Per aprire la strada a nuove sanzioni in grado di bloccare finanziariamente la Repubblica islamica e isolare i centri di ricerca controllati dai pasdaran l’America deve offrire a Pechino forniture energetiche in grado di sostituire quelle iraniane. Un’impresa non facile. Teheran soddisfa oggi il 12 per cento del fabbisogno di greggio cinese ed accetta in cambio delle sue forniture a prezzi già vantaggiosi pagamenti in armi o tecnologia militare. Su questa base l’eventuale aiuto cinese è ben difficile da ricompensare. Ci ha provato Hillary Clinton trattando con l’Arabia Saudita, ma i prezzi offerti da Riad per rimpiazzare il petrolio iraniano ancora non entusiasmano Pechino.

E così la Cina e il suo presidente Hu Jintao hanno facile gioco nel tenere l’America sulla corda, pretendere in cambio concessioni più allettanti e giocare con quella sottovalutazione dello yuan che rischia di bloccare tutte le esportazioni americane verso Pechino.

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