Isherwood, storia gay ma con poco «pride»

Il decadentismo è come il tramonto. Non sai dire se è bello di suo o soltanto perché ti dà la speranza, anzi la certezza di una nuova alba, di una nuova stagione in cui lo struggimento, la noia, viene nuovamente messa fra parentesi. Fino al prossimo giro. Il decadentismo di Christopher Isherwood ha avuto almeno due tonalità, due registri. C’è stato quello documentale, quasi cronachistico, di Addio a Berlino, in cui la Germania degli anni Trenta s’abbandonava lasciva sul letto e, gonfia di birra e stanchezza, apriva le gambe offrendosi all’amante impotente chiamato nazismo. E c’è stato quello distaccato, disilluso di Un uomo solo, con una California che, nei primi Sessanta, si alzava la mattina, da un altro letto, con ancora la bocca impastata per gli stravizi della guerra e tuttavia con la speranza, o la certezza, di potersi rimettere in moto.
Ad accomunare i due libri, altrimenti lontanissimi fra loro, è l’occhio dell’autore. Non lo sguardo, indulgente e brillante nel primo caso, severo e cinico nel secondo, bensì proprio l’occhio, l’organo sensoriale. Un occhio fotografico. «Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto - scrive Isherwood nella prima pagina di Addio a Berlino -; non penso, accumulo passivamente impressioni. Registro l’uomo che si rade alla finestra di fronte e la donna in chimono che si lava i capelli: un giorno tutto ciò dovrà essere sviluppato, attentamente stampato, fissato». E Un uomo solo (riproposto da Adelphi - uscirà mercoledì prossimo - nella classica, e ottima, traduzione di Dario Villa, pagg. 150, euro 16), a sua volta, si apre così: «Il risveglio comincia con due parole, sono e ora. Poi ciò che si è svegliato resta disteso un momento a fissare il soffitto, e se stesso, fino a riconoscere Io, e a dedurne Io sono ora». Ma l’Io in questione non è un Gregor Samsa, nessuna metamorfosi lo ha strappato alla sua dimensione.
George, il professor George, docente universitario, quella mattina scopre suo malgrado di essere sempre il solito: è inglese, ha 58 anni, pesa 69 chilogrammi, è alto 170 centimetri. Ma, come un altro eroe decadente, il Des Esseintes di Huysmans, non sa che farsene, di se stesso. La recente morte dell’adorato compagno Jim lo ha svuotato dei contenuti, lasciandone intatta la forma, che ora gli appare come il frusto simulacro di un «vecchio culo». George nasconde quanto basta la propria omosessualità perché siamo nel 1962, ed è presto per ogni orgoglio (o «pride»): a prevalere è ancora il pregiudizio. Quello dei vicini di casa, della gente per strada, degli studenti...
La nasconde, questa omosessualità, ma senza ostentarla a se stesso. Sa di essere, come gli etero, un semplice, banale, «comproprietario dell’utopia americana, il regno della buona vita in terra». Lui è uno che preferisce rispettare i regolamenti, siano il codice della strada o le leggi non scritte della società, perché sa che, così facendo, può concedersi il lusso di spernacchiarli in privato senza diventarne una vittima. Certo, gli anni gli pesano: «Vecchio, nel nostro Paese del Mellifluo, è diventata una parola sporca, quasi come ebreo, o negro». Tuttavia, in palestra fa ancora la sua porca figura, anche se circondato da ragazzini imberbi e giovanottoni atletici. Da buon gay colto, coltiva il mito della Grecia classica, l’antica «democrazia del corpo», il confronto intimo e dialettico, ma non carnale, con il potenziale amasio sull’esempio dei dialoghi platonici.
Il professor George non ha, non può avere, almeno per meri motivi di età, di generazioni, la baldanza di «Herr Issyvoo», come la freulen Schroeder di Addio a Berlino chiama, storpiandone il nome, il narratore (cioè Isherwood medesimo). Però resiste alla tentazione di scaricare sugli altri l’astio generato dal dolore per la scomparsa di Jim. Egli è solo, non solitario. Consola, appunto, l’amica Charlotte, angustiata dai problemi famigliari («Non si arrendono mai le donne? No. Ma, proprio per questo, in genere incassano bene»); prova ancora un sottile piacere nel far lezione, anche se sa benissimo che a loro «non gliene importa un accidente» di Tennyson o di Yeats; arriva persino a far visita in ospedale a Doris, la donna che stava quasi per soffiargli il suo Jim e che ora si spegne come una candela («a ciò che riguarda la morte possiamo partecipare tutti, in qualunque momento, a qualunque età, sani o malati»). E se accade che l’«occhiata lucertolesca del vecchio maniaco» si posi sul corpo acerbo di Kenny, l’impertinente discepolo che gli chiede se ha mai provato la mescalina e con il quale, ubriaco fradicio, fa il bagno nudo nell’oceano, la cosa finisce lì, senza sesso né tantomeno scene isteriche.


La giornata del «vecchio sporcaccione», capolavoro di misura e intensità uscito dalla penna ispiratissima di Isherwood, si chiude (in solitudine) nel letto dove era incominciata. Lì George dormirà il sonno del giusto. L’anticamera più dignitosa della morte.

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