Islam sconosciuto Viaggio nella terra piena di sorprese

Comunità transgender, teatri licenziosi, gioco d'azzardo e 800mila tossicodipendenti. Il lato mai visto del più grande Paese musulmano

Daniele Bellocchio

da Lahore

Repubblica Islamica del Pakistan: nella terra racchiusa tra il Golfo Arabico e la catena himalayana, la religione islamica ha sempre avuto un ruolo centrale, dominante, a tratti totalitario. Nell'immaginario comune è questa una nazione fatta da donne in burqa e salafiti incendiati da quel rigorismo sunnita che nega ogni concessione al presente. È questo lo Stato che ha offerto rifugio e armi ai mujhaeddin e ai talebani durante la guerra in Afghanistan e che attraverso la legge sulla blasfemia discrimina le minoranze religiose. Ma il Pakistan è anche altro: è un luogo che nasconde nei vicoli, nei parchi, nelle case private e nei teatri clandestini il proibito: la musica, la droga, la prostituzione, la perversione. Il peccato.

È notte e nella prima periferia di Lahore, fuori da un edificio anonimo, continuano ad arrivare taxi e risciò carichi di persone. Molti uomini, giovani e non solo, scendono dai mezzi, entrano nel vecchio palazzo e salgono al primo piano, dove una musica da discoteca e delle luci stroboscopiche accolgono chi arriva. Decine di transex stanno ballando, si muovono sensualmente e simulano atti sessuali durante le loro danze, tutt'intorno, uomini visibilmente ebbri di desiderio, fanno foto con i cellulari, si accordano con i ballerini su dove e a che prezzo proseguire la notte e, intanto, ogni volta che un ladyboy s'introduce sulla pista ecco che una pioggia di banconote lo travolge e grida eccitate lo incoraggiano a dimenarsi. È la festa di compleanno di Lady Roma, una transgender pakistana, che assisa su un trono riceve doni e complimenti da ammiratori che sognano di essere di lei amanti.

In Pakistan la comunità transgender comprende dalle 350mila alle 500mila persone e qui i transessuali, in apparenza, godono di maggiori diritti rispetto a molti altri Paesi al mondo. La Corte suprema di Islamabad, infatti, ha riconosciuto il «terzo genere» nel 2009 e poco tempo prima era stato garantito il diritto di voto ai membri della comunità Lgbt. Ma la realtà, nei fatti, non sempre corrisponde a quanto dicono le carte. Se da un lato infatti c'è un'apertura politica, dall'altro continuano le discriminazioni, le persecuzioni e gli omicidi nei loro confronti.

Lady Roma e le hijra continuano a ballare all'interno del salone e intanto, a spiegare com'è la vita dei transgender nel Paese islamico è Gehta Babi, una guru, che racconta: «Per gli uomini noi trans siamo il desiderio proibito, la fantasia trasgressiva, tutto ciò che non possono soddisfare per pudore e morale religiosa con le donne lo ricercano in noi. Molti trans in Pakistan vivono in comuni con a capo un guru. Ovvero una transgender con esperienza, come me, che insegna ai propri adepti a danzare, a comportarsi in modo femminile e che trova per le proprie allieve opportunità di lavoro e garantisce protezione. Ma non tutte però accettano questo tipo di vita. Molte preferiscono essere libere ma capita che siano vittime di abusi e violenze di ogni genere e inoltre vivendo la notte alla ricerca continua di clienti spesso, per disperazione, finiscono nel vortice della droga».

Le parole della guru introducono così un altro aspetto del mondo proibito pakistano quello degli stupefacenti. Il Paese asiatico vanta infatti l'agghiacciante primato di essere il primo stato al mondo per consumo di eroina. All'anno vengono consumate 44 tonnellate di sostanza e i tossicodipendenti sono oltre 800mila.

Il Red Fort è sullo sfondo, un muezzin chiama alla preghiera e la sua voce riecheggia di minareto in minareto, è l'ora del tramonto e la capitale del Punjab si tinge a poco a poco di rosso. Per rendersi conto della tragedia che la droga afghana produce nel Paese confinante occorre spingersi nell'Alì park. È qui, nella città vecchia, nel quartiere a luci rossi di Heera Mandi, che si ritrovano i consumatori cittadini. Alcuni hanno mosche che sciamano sulla bocca, altri sulle palpebre chiuse, sotto le quali, menzogneri sogni di crudele evasione si rincorrono propugnando il finto benessere dell'istante. Uomini, donne e ragazzini siedono con una siringa in mano o perduti nei viaggi dell'oppiaceo. Hanno volti quasi mistici, a tratti da martiri. Le barbe lunghe, i capelli annodati, le guance scavate, gli occhi vitrei e spiritati. Due giovani di vent'anni stanno sciacquando l'ago di una siringa dentro una bottiglietta d'acqua. Uno rimbocca la manica della camicia e poi con la cintura stretta intorno al braccio fa gonfiare le vene, l'altro poi appoggia l'ago e con accuratezza da alchimista guarda in controluce la siringa, pigia un po' lo stantuffo ed ecco che penetra il braccio del giovane amico, trafitto e perduto come un San Sebastiano di terra pakistana. Un uomo vaga spettrale, ha le braccia tagliate e gli occhi fissi nell'altrove e più appartati ci sono due giovanissimi: Shabbaz e Muhammad, hanno degli stracci in mano, li stendono sul prato e poi li cospargono di colla da scarpe. «Oggi non abbiamo abbastanza soldi per comprarci l'eroina. Usiamo la colla. Siamo dei tossici e non abbiamo altro nella vita. Siamo orfani e veniamo dalla periferia di Lahore, non abbiamo amici e neppure genitori. La famiglia siamo noi e gli altri che frequentano questo parco. Oggi abbiamo 24 e 26 anni, abbiamo iniziato a drogarci quando ne avevamo 12. Non smetteremo mai di farlo, finirà quando moriremo». E poi con un fatalismo cosciente e amaro proseguono: «La nostra vita non è altro che cercare una dose e farcela in vena. A volte poi succede che arrivi la polizia, ci sbatta in prigione per qualche giorno, ci picchi e poi ci rilasci. Noi torniamo qua e rifacciamo la vita di sempre. Non è un bel vivere e non sarà neanche un bel morire quando ci toccherà andarcene, ma è quello che ci attende».

La morte non spaventa ed è vissuta come un'imprescindibile e imminente compagnia dell'oggi per gli eroinomani di Lahore. Non traspare paura dai loro racconti, piuttosto emerge un'esasperata accettazione della prigionia a cui sono costretti e un inaccessibile desiderio di libertà prefigurato però soltanto nella morte. «Alcuni amici sono morti. Sai, ogni volta che ci droghiamo può succedere qualcosa ed è capitato che alcuni ragazzi come noi siano morti qua, proprio nel parco dove stiamo parlando ora. Un'overdose, ed è tutto finito».

La violenza del racconto è accompagnata dalla violenza delle immagini intorno. Dove tutto porta i segni dell'eroina che affossa logiche e valori, affetti e religioni, ed è così che uomini si trascinano come defunti implorando la dose per vivere morendo poco a poco. Tra loro c'è anche Safraaz, lui non vuole parlare in mezzo agli altri e invita ad andare a casa sua, in un appartamento del centro. È divorato dalla droga, gli zigomi e le ossa sembrano voler uscire dalla pelle, cammina a fatica, ha 50 anni, e da quasi 30 anni usa sostanze: «Quando ho i soldi compro l'eroina, se no tutto quello che riesco a procurarmi. Ormai io vivo qua e mi drogo. Ho bisogno di farmi e quando ho l'eroina mi faccio 2, 3 grammi al giorno». La casa è buia e anche i raggi del sole pakistano sembrano voler star lontani dai bovindi della sua dimora lasciando Safraaz sprofondare nel buio che ha in sé e tutt'intorno. Smette di parlare all'improvviso, slaccia lo salwar kamiz e dalla corda dei pantaloni estrae una pacchetto di stagnola. Lo apre, ed eccola la sostanza. Si infila 20 rupie nel naso e poi con un gesto di prostrazione nei confronti di un dio assoluto si piega e in un colpo solo l'eroina è nel cervello. Lui è sdraiato per terra, le orbite sono riverse e non resta che assistere al momento, nel buio e nel silenzio della sua casa dove tutto ha un sapore, di sconfitta, pena e colpevolezza.

C'è una sensazione di personale vergogna nell'essersi affacciati a guardare nell'abisso, nelle vite degli ultimi. Uomini come Safraaz, ragazzi come Shabaaz e Muhammad, pugili in rovina che incassano colpi senza poterli restituire: uno dopo l'altro, dalla vita, dalla sorte, dal nichilismo di reazione che si chiama eroina.

Vittime senza nemmeno la consolazione della pietà altrui, ma condannati dal pubblico disprezzo e dalla comune indifferenza a morire nella solitudine degli empi nella «terra degli uomini puri»: Pakistan.

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