Islam, il silenzio e la diplomazia

Bruno Fasani*

La recente proposta di introdurre nelle scuole l’insegnamento del Corano sembra aver trovato più consensi sui giornali che tra la gente. Soprattutto in quella base popolare più immediata e sanguigna che, a differenza delle gerarchie e di chi ha responsabilità pubbliche, non si pone problemi di autocensura diplomatica e neppure di esemplarità pedagogica. Molti avvertono l’ingiustizia dell’assenza di reciprocità nei Paesi musulmani verso i cristiani, ma anche una certa incompatibilità della loro filosofia di vita con i diritti fondamentali riconosciuti dalle moderne democrazie. Penso al diritto di famiglia, alla visione della donna, alla libertà religiosa e quant’altro. Cresce così una domanda sommessa ma insistente: non varrebbe la pena parlar chiaro? Non sarebbe l’ora di proclamare la globalizzazione dei diritti universali così come li ha riconosciuti l’Onu nel 1948? Non sono pochi coloro che attribuiscono questo compito alle gerarchie cattoliche, magari alla figura stessa del Papa. Eppure nessuna persona di buon senso può pensare che la via della denuncia e del confronto rivendicativo siano oggi percorribili. Oltretutto, a prescindere da ovvie ragioni di prudenza, è dagli anni del Concilio Vaticano II che la chiesa ha scelto di passare dalla strategia dell’apologo a quella del dialogo. Ma proviamo ad immaginare, sia pure per paradosso, che Papa Ratzinger, durante una delle sue catechesi, si rivolga all’Islam, più o meno in questi termini: «Fratelli carissimi, pur esprimendovi tutta la nostra fiducia, vi chiediamo un grande atto di coraggio: fare quello che noi stiamo facendo dal secolo scorso e cioè di interpretare i vostri testi sacri con le nuove scienze, l’archeologia, la filologia, lo studio delle lingue antiche... per rileggerli alla luce delle nuove scoperte e renderne attuale il messaggio che in essi è contenuto. Abbiate il coraggio d’essere coraggiosi, senza far ricorso alla violenza come vittoria sulla diversità. Evitiamo soprattutto le paure: quella dell’Occidente, eticamente debole ed economicamente bisognoso del vostro petrolio e quella del mondo islamico verso ciò che è nuovo. La vostra è una guerra ma è anche la risposta di una vostra cultura religiosa, che fatica a lasciare i canoni culturali dei secoli passati in cui s’è cristallizzata. E magari anche voi guardate a Cristo, fratello universale e misura della dignità di ogni essere umano».
Fin qui il paradosso. Il resto sarebbe cronaca. Dopo qualche distinguo imbarazzato, le prime avvisaglie dello scontro: qualche prete «democratico» pronto a far partire il tam tam della protesta. A seguire manifestazioni di piazza tra bandiere e sigle varie. E poi via ai talk show, con tanto di teologi della politica e santoni della laicità pronti a bruciare, sull’altare dell’integralismo, l’integralista e il suo messaggio. Frattanto, da molti Paesi musulmani, l’eco di chiese distrutte, cristiani imprigionati e ammazzati, Consolati e Ambasciate prese d’assalto e incendiate... A quel punto molti si chiederebbero: valeva la pena parlare? Non era meglio lavorare nel silenzio delle diplomazie piuttosto che cercare lo scontro? Ovvia la risposta affermativa. La finzione immaginativa mi rimanda ad un processo di canonizzazione da tempo fermo nelle Congregazioni vaticane. È quello di Pio XII, sul cui presunto silenzio sulla Shoah grava da tempo l’accanimento di storici e opinionisti: da John Cornwell a Rolf Hochhut, da Costa Gravas a Oliviero Toscani.
Eppure dopo la guerra, non mancarono gli attestati di stima delle massime autorità di Israele verso il Vaticano: da Golda Mayr al Isaac Herzog, da Elio Toaff, fino alle recenti dichiarazioni del rabbino di New York, David Dalin. La storiografia più attenta ci descrive la complessità della situazione di allora, lasciandoci intravedere un Papa più attento a salvare vite che a fare proclami di denuncia.

Alla luce degli scenari attuali, oggi come allora, ci chiediamo: davvero il silenzio è sempre indifferenza, omertosa complicità? O non è forse la strategia della sapienza a favore dell’uomo? Sempre che il “peccato” di Pio XII non sia riconducibile altrove, come disse Andreotti qualche tempo fa: «Lo accusano di debolezza verso il nazismo, perché è stato forte con il comunismo».
* direttore VeronaFedele

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