Ahmadinejad forse millanta, forse no. Di certo Washington si preoccupa. Lultima sparata del presidente iraniano sulle tremila centrifughe pronte a sputare uranio arricchito rischia di diventare la classica goccia capace di far traboccare il vaso. Il vaso è quello dIsraele. Una linea di produzione industriale da tremila centrifughe non è, per lo Stato ebraico, una soglia qualsiasi. È il punto di non ritorno, la sottile linea rossa oltre la quale il fantasma nucleare si trasforma da bozzolo evanescente in concreta crisalide. Per Israele quella crisalide è sufficiente a muovere i bombardieri. A Washington lo sanno bene. «Israele potrebbe fare qualcosa non appena arrivano intorno alle tremila centrifughe, al Pentagono invece sono disposti ad aspettare un po più a lungo», ricordava un funzionario della Difesa americano in una dichiarazione raccolta dal quotidiano inglese Times prima dellultima ammissione del presidente iraniano.
Storia e cronaca dimostrano che in casi simili Israele non concede deroghe. Nel 1981 - quando bombardò il reattore di Osirak - lIrak di Saddam Hussein era molto più indietro nella corsa allatomo dellIran oggi. Lo scorso settembre sono bastate le ipotesi sulla costruzione in Siria di uninfrastruttura nucleare con lausilio di scienziati della Corea del Nord per innescare una micidiale quanto misteriosa operazione israeliana. Lipotesi di unincursione di jet con la Stella di David contro infrastrutture nucleari iraniane è dunque concreta. Il primo a ricordarlo è il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak secondo cui «tutte le opzioni restano sul tavolo ed è necessario studiare gli aspetti di uneventuale operazione» da far scattare «nei prossimi mesi o nei prossimi due anni». Il termine di due anni arriva da un rapporto dallintelligence militare israeliana in cui si ricorda che Teheran sarà pronta ad assemblare unarma atomica dalla fine del 2009. «Il tempo - afferma Barak - rischia di passare estremamente in fretta». Shaul Mofaz, vicepremier ed ex capo di Stato Maggiore israeliano, è invece preoccupato dallinazione dellAiea e chiede la testa del suo direttore, il premio Nobel per la pace egiziano Mohammed El Baradei. «La politica di El Baradei mette in pericolo la pace mondiale, la sua irresponsabile tendenza a nascondere la testa sotto la sabbia quando si affronta il nucleare iraniano dovrebbe farlo finire sotto inchiesta», tuona Mofaz dopo un incontro a Washington con il segretario di Stato Condoleezza Rice. «El Baradei guida unorganizzazione responsabile della questione, ma ripete sempre aggiunge Mofaz - di non avere prove mentre dispone delle evidenze fornite da altri Paesi». Il vicepremier dubita, però, a differenza di Barak, che lIran stia per superare la soglia di non ritorno. «Lo sviluppo delle infrastrutture necessarie per larricchimento delluranio - sottolinea - è probabilmente più lenta di quanto fanno credere gli iraniani». Resta però la durezza dellattacco a El Baradei messo a segno alla vigilia di un nuovo rapporto dellagenzia dellOnu sulle attività iraniane.
I timori americani di un attacco israeliano sono legati soprattutto alle sue conseguenze politiche e militari. Colpendo a breve, Israele farebbe piazza pulita di tutti i tentativi della Casa Bianca di raggiungere risultati concreti nella conferenza di Annapolis di fine novembre. Lincursione innescherebbe una vasta rappresaglia iraniana capace di paralizzare lo scenario Mediorientale, bloccando il Golfo persico e attivando le milizie sciite in Irak e gli Hezbollah in Libano. Il Pentagono cerca dunque di ridurre a più miti consigli lalleato lavorando per una situazione militarmente più stabile in Irak e politicamente meno evanescente nel resto del Medio Oriente.
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