Gian Micalessin
Se ne sono andati da dove tutto era iniziato. Da quel cancello dellinsediamento di Zarit dove il 12 luglio un gruppo di guerriglieri di Hezbollah attaccò due jeep dellesercito israeliano, uccise otto militari e ne rapì due. Incominciò lì la guerra di 34 giorni costata la vita di 1200 libanesi, in gran parte civili, e di 157 israeliani, in gran parte militari. Il conflitto si fermò il 14 agosto con il cessate il fuoco imposto dal voto della risoluzione Onu 1701. È finito definitivamente ieri mattina quando un soldato israeliano ha chiuso il lucchetto di quel cancello. Da lì poche ore prima erano sfilate le ultime dozzine di militari israeliani rimasti in Libano per tener docchio i punti critici del dispositivo militare di Hezbollah in attesa del dispiegamento della nuova forza Unifil.
La parola «finita» per quella guerra e però troppo definitiva. Mentre il soldato chiudeva il cancello il ministro delle infrastrutture Benjamin Ben Eliezer avvertiva che, molto probabilmente, lesercito israeliano dovrà tornare in Libano fra pochi mesi. Un pessimismo non infondato. Quella guerra non ha garantito ad Israele nessuno dei risultati sperati. Ehud Goldwasser ed Eldad Regev, i due riservisti rapiti, sono ancora nelle mani di Hezbollah. Forse vivi, forse morti. Il «partito di Dio» sta, intanto, ricostituendo gli arsenali, riposiziona le truppe invisibili, annuncia per bocca del segretario generale Hassan Nasrallah di avere altri 20mila missili puntati su Israele. E lo sceicco Ezzadin Hassan, uno dei capi del partito di Dio al sud minaccia di riprendere gli attacchi se Israele non metterà fine alle incursioni e non abbandonerà le «fattorie di Shebaa».
Il presidente siriano Bashir Assad chiarisce invece che nessuno potrà interrompere il flusso di armi destinate a Hezbollah. «Se vi sarà una reale volontà di introdurre armi illegali dichiara al quotidiano spagnolo El Paìs - né la risoluzione dellOnu, né il dispiegamento militare potrà fermarle» . Un chiaro avvertimento a chi si illude di poter ignorare la volontà della Siria e dei suoi alleati iraniani. Il generale francese Alain Pellegrini, comandante dellUnifil, preferisce, per ora, concentrarsi sul ritiro israeliano. Il ripiegamento gli basta per parlare di «significativi progressi» e dare il via alla marcia davvicinamento al confine. La prima fase critica della missione Unifil si giocherà proprio lì. Tsahal fa sapere che non esiterà ad aprire il fuoco contro i sostenitori di Hezbollah se savvicineranno alla barriera di confine lanciando sassi contro le postazioni israeliane o sventolando bandiere. Quelle mosse dal punto di vista israeliano non sono mai casuali, ma servono ad individuare le truppe e a sondare la capacità di reazione. Israele chiede dunque allUnifil, che per ora nicchia, di bloccare qualsiasi manifestazione ostile al confine. Tra le questioni da risolvere vi è anche quella di Ghajar, un villaggio di confine diviso in due dalla «linea blu» allestremità nordorientale della frontiera. Lesercito israeliano, prima di abbandonare le posizioni a nord del villaggio, vuole che lUnifil ne controlli gli accessi e impedisca incursioni di Hezbollah.
Lo spostamento a ridosso della «linea blu» riguarderà nei prossimi giorni anche i 750 uomini del battaglione San Marco e i circa 200 lagunari della Serenissima che compongono il grosso dei mille soldati italiani presenti nel sud del Libano. «Due battaglioni spiegava ieri il colonnello Massimo Goio - si sono insediati a Maarake», a quindici chilometri scarsi dalla frontiera israeliana, mentre una compagnia trasferita ad Al Hinnyah si prepara ad affiancare i mille militari cinesi alla loro prima esperienza mediorientale. Il resto del nostro contingente fa, per ora, quadrato intorno al quartier generale di Tibnin.
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