Controcorrente

«Ma in Italia preparazione troppo teorica»

«Siamo ancora piccoli ma abbiamo in mano tutte le carte per fare il salto». Sul futuro del mercato dei videogiochi Thalita Malagò è ottimista. Lei, 43 anni, avvocato, ha iniziato giocando a Pac Man e da 13 anni è alla guida di Aesvi, l'associazione che rappresenta gli editori e gli sviluppatori di videogiochi in Italia.

Intende dire che i videogiochi possono davvero rappresentare un'opportunità di lavoro per i giovani?

«Lo sono, sempre di più. Un tempo a dare lavoro erano solo le multinazionali del settore che sviluppavano la rete di distribuzione dei giochi. Oggi, oltre ai distributori, ci sono più figure: i tecnici e gli informatici, i produttori, gli studi per lo sviluppo».

Si può parlare di una mini filiera dei videogame?

«Sì, una filiera ancora limitata, con circa mille persone coinvolte e un fatturato di 50 milioni di euro all'anno».

Anche il mondo dei videogiochi beneficerà dei contributi della Legge cinema. Un aiuto per le start up?

«Per ora manca il decreto attuativo, all'esame della Commissione europea. Noi speriamo ci siano aiuti reali, è ancora tutto da capire. Oggi le start up si autofinanziano: ricevono commesse per creare applicazioni per aziende o musei e con questi soldi si creano anche la base per progettare i videogiochi. In Inghilterra invece il governo ha previsto un fondo e assegna contributi per coprire le spese di chi vuole realizzare un prototipo di gioco».

I ragazzi che escono dalle scuole di videogame sono davvero preparati?

«Dipende dalla scuola. È importante che i loro docenti siano anche professionisti del settore. In ogni caso i giovani vengono successivamente formati dalle aziende che li assumono. Il problema è quello della formazione in generale: in Italia è molto teorica».

Cosa consiglia a chi si laurea in videogiochi?

«Consiglio di fare esperienza all'estero e poi tornare in Italia. Noi rappresentiamo meno del 5% del mercato».

MaS

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