Italiani grandi opere (a casa d'altri)

Ponti, tunnel, metropolitane, aeroporti. I nostri costruttori lavorano ai più importanti progetti del mondo. E qui i cantieri restano fermi

Italiani grandi opere (a casa d'altri)

Sono gli italiani che di strada ne hanno fatta tanta. Ma anche ponti, tunnel, metropolitane, aeroporti... Professionisti delle grandi opere, sì, però a casa d'altri. Perché in pochi restano profeti in patria, dove ci si accapiglia ancora per una linea ad alta velocità e un cantiere può restare fermo per mezzo secolo. Allora per lavorare con profitto le imprese di costruzioni devono andare all'estero. Dove mettono in piedi capolavori di ingegneristica ad alto tasso tecnologico nonché dal forte impatto estetico, ultimi in ordine di tempo il Terzo ponte sul Bosforo e l'ampliamento del Canale di Panama (firmati Astaldi e Salini Impregilo), presi a modello dai competitor di tutto il mondo. Nell'arco dello scorso anno è stato raggiunto un risultato per certi aspetti storico: non solo è in continua crescita, ma per la prima volta il volume dei ricavi al di fuori dei confini nazionali ha superato (54,3%) quelli maturati nella Penisola.

Del resto gli ostacoli tutti italici allo sviluppo delle infrastrutture sono noti: giungla delle autorizzazioni, costo del lavoro insostenibile, dittatura dei «Nimby» (la legge del «vietato costruire nel mio cortile» vale ovunque), infiltrazioni della criminalità e bustarella elevata quasi a prassi. Dopo otto interminabili anni di crisi, la scelta dell'internazionalizzazione è quella che paga di più. Anzi, spesso si rivela un'alternativa obbligata per la sopravvivenza di decine di aziende.

GIOCARE IN TRASFERTA

I numeri restituiscono le dimensioni del fenomeno: dal made in Italy al made by Italy, indietro non si torna. Secondo l'ultimo rapporto dell'Associazione nazionale dei costruttori edili (Ance), per l'undicesimo anno consecutivo il sistema delle costruzioni continua a espandersi all'estero. Le imprese italiane alla fine del 2015 sono impegnate in 627 cantieri oltreconfine, di cui 231 appena conquistati, per un controvalore di oltre 87 miliardi di euro; sono presenti su tutto il mappamondo, con interessi in 89 Paesi e cinque continenti, dall'Africa al Sud America, dal Medio Oriente all'Asia. In termini di fatturato, questa presenza stabile e capillare si traduce in crescita a doppia cifra: +14,5% rispetto all'anno precedente, performance ancora più importante se si considera che il giro d'affari in Italia nel frattempo è calato ad un ritmo del 12,2%.

In Qatar le commesse appannaggio degli italiani stanno volando al ritmo di 3 miliardi di euro all'anno di nuovi lavori, complici i grandi appuntamenti sportivi che il Paese degli sceicchi ospiterà da qui ai Mondiali di calcio del 2022. Si accetta la sfida di costruire dall'altra parte del pianeta, anche in luoghi sensibili dal punto di vista della sicurezza (come in Libia), pur in scenari di guerra e di forte instabilità politica (vedi in Venezuela, che è ancora il primo Paese al mondo per commesse tricolori, per un controvalore di quasi 11 miliardi di euro). Eppure, basta scavallare la dogana visto che in Francia si concentrano 2,3 miliardi di euro di cantieri appena avviati. Certo, l'avventura nei mercati internazionali non è impresa da tutti: oltre a un know how tecnico è indispensabile la padronanza dei contesti sociali, culturali e legislativi in cui si andrà a operare. E poi serve una struttura societaria solida, conti in ordine, una base di partenza in valore della produzione indicata dagli esperti in almeno 20 milioni di euro. Ma la vera novità è che in questo processo di espansione le dimensioni contano fino a un certo punto: sono decine le piccole e medie imprese che si stanno ritagliando un posto nello scacchiere del business globalizzato.

«Sa la verità? In Italia i briganti del Duemila sono gli enti locali. Ci sono troppi poteri concorrenti che bloccano le infrastrutture, c'è sempre qualcuno che vuole mettere l'ultima parola per strappare qualcosa in cambio; far partire i cantieri è già difficile, figuriamoci completarli in tempi ragionevoli», ammette Giandomenico Ghella, vicepresidente Ance e presidente dell'omonima società romana nella top ten delle imprese più attive all'estero. «Per non parlare del cortocircuito innescato dalla Corte dei conti con la sua attività di controllo a cose fatte, che finisce per ingessare la cosa pubblica con lo spettro del danno erariale. Questo meccanismo porta al rallentamento e all'immobilismo. Una situazione patologica che non esiste all'estero. Eppure i soldi ci sono, la volontà politica di sbloccare le grandi opere, ci sembra, anche».

TROVA LE DIFFERENZE

Tra i progetti portati avanti da Ghella Spa c'è quello dell'estensione metropolitana di Atene, otto chilometri e sette nuove stazioni che collegheranno entro il 2017 il centro storico al porto del Pireo. «Persino in un contesto come quello greco, con il Paese che era fermo a causa del capital control, ci si accorge della differenza rispetto a quanto accade da noi. Gli imprenditori italiani decidono di andar fuori perché altrove trovano regole più semplici e chiare, buoni progetti, rispetto della parola data, standard di sicurezza elevati», testimonia Ghella. Tutte buone ragioni per diversificare il rischio e puntare su altri tavoli, con la speranza che anche a casa nostra la ruota dello sviluppo torni a girare.

E così mentre i cinque giganti italiani delle costruzioni Salini Impregilo, Astaldi, Condotte, Bonatti e Cmc staccano gli altri gruppi per volume d'affari estero (vedi anche grafico in pagina), numerose realtà stanno scalando le gerarchie dal basso e si affermano in angoli del pianeta fino a poco tempo fa «impenetrabili». La parabola della I.co.p da Basiliano (5mila abitanti nella provincia di Udine) è emblematica. Come certificato dalla società di ricerca Guamari, che analizza ogni anno i bilanci delle prime 50 imprese del settore, è riuscita in pochi anni a portare la quota di fatturato oltreconfine dal 20 al 75%.

Piero Petrucco, 52 anni, guida l'azienda con il padre e il fratello, e prima ancora c'era il nonno ingegnere, conservandone la cifra familiare nonostante i numeri da multinazionale in miniatura. Racconta l'imprenditore: «Da vent'anni ci siamo specializzati nei microtunnel, che sono le opere di base premessa per ogni grande opera. Il primo lavoro preso fuori dall'Italia, in Svizzera, lo abbiamo ottenuto nel 2001. Oggi fatturiamo 70 milioni, lavoriamo in quattro continenti, dalle metropolitane in Danimarca alla nuova rampa di lancio dell'Agenzia spaziale europea nella Guyana francese; abbiamo 280 dipendenti di 19 nazionalità diverse perché l'apertura al mondo comincia da quando si sceglie chi assumere». Mai come in questo campo il segreto per il successo è non fare mosse avventate. «Siamo cresciuti in maniera graduale - spiega Petrucco -, quelli come noi per fare il grande salto devono specializzarsi in opere di nicchia e andare in Paesi avanzati. Non si può competere coi colossi mondiali su lavori generici». Ed ecco l'identikit della squadra perfetta per conquistare il mondo: «Trentenni, con un livello di istruzione elevato e culturalmente dotati, che parlano almeno tre lingue e sono disposti a passare molto tempo lontano dall'Italia, anche in contesti particolari. Però, senza un sistema Paese che ci protegga, vige un po' l'arte di arrangiarsi. Ma in questo, si sa, noi italiani siamo i più bravi al mondo».

ITALIA, LAVORI IN CORSO

La differenza tra aprire un cantiere in Sicilia e andare a scavare in Colombia, per dire, sta quasi tutta nella gestione del personale. «Se per ogni euro che va nelle tasche di un operaio friulano un'azienda sborsa 2,50 euro per via del cuneo fiscale, mentre a Copenaghen è di 1,50 e in Canton Ticino è 1,6, significa che qui in Italia qualcosa non va - aggiunge Petrucco - dato che per noi il 30% dei costi è dato dalla manodopera. Basta farsi un giro nella zona. C'è stata un'ecatombe di imprese. In Friuli, dall'inizio della crisi ad oggi, una su due è stata spazzata via».

È il paradosso per eccellenza, quello delle aziende che chiudono e dei cantieri aperti. Fino a data da destinarsi. Il ministero delle Infrastrutture conta ancora 838 opere di interesse nazionale incompiute. Il governo promette di sbloccarle e rilancia con un piano di almeno 25 opere prioritarie, ad un costo previsto di 90 miliardi. Il «fondo Renzi» legato al ddl Bilancio per ora ne mette sul piatto cinque. Tra gli operatori tornano segnali di fiducia. «Il Codice Appalti, anche se mancano ancora all'appello una cinquantina di decreti attuativi, prova a portare un po' d'ordine in una materia in cui finora ha sempre regnato la confusione dei poteri, soprattutto di controllo, e l'incertezza di pianificazione», fa il punto Giovanni Cardinale, responsabile area normative del Consiglio nazionale degli Ingegneri, che sottolinea: «All'estero l'imprenditoria italiana dà il meglio perché vale il concetto se non lavori rispettando i contratti e non consegni entro la data stabilita non ti pago; da noi, invece, prevale la logica dei contenziosi. E la variabile tempo non è quasi mai presa in considerazione».

Alla fine il confronto è impietoso: se ci sono voluti 150 anni di parole per non fare il Ponte sullo Stretto, ne sono bastati solo 3 e mezzo per riuscire ad attraversare su un'autostrada a otto corsie e due linee ferroviarie il nuovissimo gioiello turco sul Bosforo.

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