da Milano
«Se mi annoio sul palco dopo 40 anni di concerti? Per me la musica è come il sesso, e il sesso non ti stanca mai perché ci metti trasporto, sentimento, perché ogni volta è diverso dalla precedente, ti dà la carica». Ha passato i 60 anni Ian Anderson, il troubadour con lanima di Robin Hood, padre-padrone dei Jethro Tull, che spiega così leterno successo della sua pozione magica di citazioni classiche, radici blues, echi barocchi, folk rock e jazz. Un successo fatto di alto artigianato sonoro nato 40 anni fa con lalbum This Was e con brani storici quali Song For Jeffrey, che Anderson e i Jethro Tull festeggiano in Italia partendo lunedì dallo Stadio Pietrangeli di Roma con tappe mercoledì prossimo agli Arcimboldi di Milano (per la Milanesiana) e sabato 5 a Pistoia Blues. «Sarà un anniversario - ammicca Anderson - così proporremo i brani più antichi tornando a dischi come Stand Up, This Was, Benefit, ma anche a blues e pezzi classici che suonavamo prima di diventare famosi; e i concerti saranno accompagnati da filmati e foto depoca».
Alla faccia del confronto e della paura di invecchiare. «Anche se mi rimproverano di aver scritto troppo vecchio per il rock, troppo giovane per morire sono sempre giovane nellanimo. Oggi quel motto potrebbe essere rovesciato. Comunque riesco ancora a suonare il flauto in equilibrio su una sola gamba e a saltare su un piede solo mentre eseguo My God».
Già, il flauto nel rock è stata una innovazione straordinaria, tanto che Anderson è definito un moderno Jean-Pierre Rampal. «Laccostamento mi lusinga. Da ragazzo suonavo la chitarra nel Rinascimento musicale londinese. Poi ascoltai quel tipo, Eric Clapton, che suonava nei Bluesbreakers di John Mayall e buttai via la chitarra; con lui in circolazione non sarei mai diventato il numero uno. Mi attirò il luccichio del flauto e imparai ad usarlo in sette mesi così fondai i Jethro Tull. Lo suonavo come una chitarra, con assolo, riff ritmati; per tre anni ho suonato il flauto pensando che fosse una chitarra». E così, senza studiare, ha imparato persino a rileggere una Bourrée di Bach. «Oltre ai blues di Robert Johnson ho amato molto la musica sacra e Bach, trovo che sia un ragazzo geniale. Credo che la mia Bourrée, che originariamente è una danza francese, gli sarebbe piaciuta. Amo le melodie classiche, come la Nona di Beethoven, con quel piglio maestoso ma al tempo stesso orecchiabile e mai supponente, che ho sempre cercato di dare al mio sound».
I punti di riferimento di Anderson sono decisamente molto alti, che negli anni si sia montato la testa? «Io sono sempre lo stesso, come un calzolaio che crea un paio di scarpe che nessuno può rifare identico. Amo i grandi artisti ma nella mia vita ho ascoltato pochissimi dischi e letto pochi libri per non farmi influenzare da nessuno. Il mio maestro è il poeta William Blake, un maledetto dai grandi sentimenti, lui ha ispirato un album come Aqualung». Per cui lei è stato considerato un mangiapreti. «Semplicemente perché dico la verità, per questo le mie canzoni sono così amate in tutto il mondo. La religione cattolica insegna cose sacrosante, ma spesso chi la governa è ipocrita». Leterno ribelle, venuto alla ribalta nel 1968, cosa pensa di quellanno caldo? «In tutto il mondo di lottava per i diritti civili. In quegli anni fu ucciso Martin Luther King e oggi, forse, con Obama lAmerica avrà il primo presidente nero. Così in quellanno cè stata una notevole spinta a cambiare le cose, il salto verso un mondo più libero. Ogni nazione lha vissuto a modo suo; in Inghilterra sè puntato più sulla liberta individuale, in Italia sulla politica. Da voi ci obbligarono a suonare sotto le bandiere rosse e mi arrabbiai molto, perché non volevo pubblicizzare nessun partito politico». Le piace essere definito un vecchio menestrello o un Robin Hood? «Sono semplicemente un musicista itinerante; Robin Hood può starmi bene, ma lui rubava ai poveri, io suonando rubo ai ricchi e ai poveri per dare alla mia famiglia, lunica cosa che conti davvero per me».
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