John Mayall d’epoca oltre le radici del blues

Forse i Led Zeppelin non sarebbero neppure nati se John Mayall - imboccato da Alexis Korner - non avesse colorito di bianco il blues di Chicago nei piccoli club londinesi. Mayall - oggi 74enne e ancora attivissimo - nei primi anni ’60 era reduce dalla Corea e, pur non essendo un virtuoso, divenne un punto di riferimento per legioni di chitarristi, tastieristi, armonicisti. Nei suo Bluesbreakers ha allattato Eric Clapton, Peter Green, Jack Bruce. In questi giorni - dopo la ristampa del celeberrimo Bluesbreakers With Eric Clapton, escono quattro pietre miliari dell’artista - del periodo 1966-1968 - con inediti e rarità; dischi che suonano estremamente moderni (allora pionieristici) negli incroci tra radici urbane blues e sperimentazione jazz. Crusade ad esempio raccoglie un pugno di brani - da Oh Pretty Woman di Albert King a My Time After a While di Buddy Guy - espressione del nuovo universo lirico del blues inglese. Nella magica fucina di Mayall c’è il futuro Rolling Stone Mick Taylor (scoperto durante un concerto nel ’66) al posto di Clapton, il Fleetwood Mac in erba John McVie e il batterista Keef Hartley. Hard blues di sudore e sangue con la perla The Death of J.B.Lenoir (dedicata al più ribelle dei bluesmen) e, rispetto all’lp, pezzi come Double Trouble, Greeny e rari singoli quali It Hurts Me Too e Your Funeral My Trial.
Volete ascoltare Mayall dal vivo ai tempi d’oro? Non perdete l’energetico Diary of the Band, selezione tratta dai migliori concerti nei club del ’67 con una travolgente versione dell’inno nazionale inglese guidata dal sax di Dick Heckstall-Smith. Poi Mayall si trasferisce in California e, suggestionato dall’atmosfera, si butta sulle complesse sperimentazioni di Blues From Laurel Canyon (con Taylor, il bassista Stephen Thompson e Colin Allen alla batteria)contaminando il blues con il jazz, l’improvvisazione, il rumorismo e il suono delle tabla.

(Nel cd i rari 2401 e i 9 minuti di Wish You Were Here, naturalmente non quella dei Pink Floyd). Bare Wires infine segna una nuova svolta; un poderoso settetto e un articolato collage sonoro guidato da una suite di quasi mezz’ora, più sei rari pezzi in più - come la lunga Start Walkin’ - rispetto all’originale.

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